L’amore per la lettura è qualcosa che non puoi gestire. Avviene esattamente come avvengono le cose della vita.

La mia fortuna l’ha fatta la mia famiglia e uno scatolone di vecchi libri impolverati.

Dentro, una ventina di volumi, alcuni malmessi, altri incisi dalla muffa e dall’umidità, altri ancora profumati di antico. Erano i superstiti delle vite da adolescenti dei miei genitori e, dal loro stato, potevo ancora intuire le numerose peripezie con le quali avevano raggiunto l’età adulta. Mia madre, tra migrazioni sud/nord, traslochi, una casa divisa con due fratelli e un carattere  pragmatico. Mio padre, figlio unico di famiglia per bene, eterno sognatore, eterno ribelle (ma non sempre con successo). E poi venivo io, forse sette (?) anni, tanti libri di favole per bambine per bene nello scaffale della mia cameretta tutta pizzi e merletti. Tanti Topolino, fumetto che divoravo da quando avevo imparato a leggere. Tati giochi (ma questa è un’altra storia).

Penso sia stata la morte di mio nonno paterno a far entrare in casa quello scatolone di libri. I più erano di mio padre, con le poche cose che aveva deciso di portare via dalla casa di famiglia, prima che la “famiglia” la rivendicasse per sé (tra zii, cugini, non detti e rancori). Mentre mio padre mi aveva abituata ad andar per musei e librerie, quello scatolone era per me una sorta di scrigno delle meraviglie. Quando lo aprivo, la vista di tutti quei libri, quell’odore così particolare, le pagine di carta spessa o sottilissima, quei caratteri di nero inchiostro a tratti un po’ sbavati, rappresentavano per me una vera e propria fascinazione.

Carlo Cassola, Primo Levi, Ernest Hemingway, Eric Maria Remarque, Richard Wright, Théophile Gautier, Mario Rigoni Stern, Alexandre Dumas. Mamma diceva fossero libri troppo difficili per una bimba della mia età, il ché suonava nella mia mente di bimba come un “apri quello scatolone e leggili tutti. Subito!”.

Bhè, è esattamente quello che ho fatto. E il caso volle che la mia mano scendesse sul libro di Dumas, Robin Hood. Forse avevo sentito parlare già di questo personaggio leggendario, forse avevo visto qualche cartone animato. Ma ricordo ancora quella domenica, la coperta tirata per chiudere il mio lettino a ponte, la torcia accesa in quella “tana” improvvisata, il profumo di colla, carta e muffa allo sfogliare di ogni pagina, le parole stampate sulle prime pagine del libro.

Penso di aver chiuso il libro solo a pomeriggio inoltrato, in tempo per la cena: gli occhi gonfi di lacrime, la torcia quasi scarica e le briciole dei biscotti ancora sui pantaloni. Avevo poco più di sette anni, per la prima volta avevo letto un libro vero (almeno se paragonato ai libri illustrati che ancora leggevo), avevo incontrato parole difficili e ne avevo chiesto il senso, mi ero innamorata di questo ladro da leggenda e, con lui, avevo sognato, amato, sofferto. E avevo capito anche una cosa molto importante: non avrei mai più fatto a meno di pomeriggi così intensi e così belli. Non avrei mai più potuto rinunciare ad avventure e nuove scoperte. Il mondo intero mi si stava aprendo e non potevo tirarmi indietro. Quello che leggevo si apriva come un universo che aspettava solo me per essere scoperto!

Quella domenica pomeriggio accadde anche qualcosa d’altro, che compresi più avanti con gli anni. E cioè che leggere non si impara tra i banchi di scuola, sui libri di lettura o obbligati da mamma e papà. Ma si impara vivendo i libri che si leggono: buttandoli in borsa prima di uscire di casa, poggiandoli sul tavolino del bar mentre fai colazione, portandoli con te nei tuoi viaggi, sottolineando ogni parola o frase significativa, piegandone i bordi per non perde il segno o una pagina amata, adormentandosi nel letto in loro compagnia, senza spegnere la luce del comodino e gli occhiali ancora inforcati.

Perché i libri, come le storie racchiuse tra le loro pagine, sono fatti per essere vissuti. Ovunque e in ogni momento della nostra vita.

Parola di Ladra ✌🏻💕