Settembre 9, 2024

Edward Hopper: una ragazza, una stanza d’albergo e un delitto – Crimini ad Arte #2

Nuova puntata podcast di Crimini ad Arte: con Edward Hopper e “La ragazza di Hopper” di Fabio Bussotti

Edward Hopper: una ragazza, una stanza d’albergo e un delitto. Sembrano elementi del tutto casuali, ma un nesso c’è e lo ha trovato la nostra Barbara Monteverdi in questa nuova puntata podcast di Crimini ad Arte.

Partiamo così dal romanzo giallo “La ragazza di Hopper” di Fabio Bussotti, edito dalla Mincione editore, per scoprire la vita e le opere di uno degli autori più iconici del ‘900: Edward Hopper.
Vi aspettiamo a partire dalle 10:00 di martedì 18 luglio per una nuova puntata di #criminiadarte.

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Scopri il libro “La ragazza di Hopper”

https://ladradilibri.com/prodotto/la-ragazza-di-hopper/

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La ragazza di Hopper. Dal titolo non è difficilissimo capire che questo artista è Edward Hopper, ma come è finito in un giallo? Bisogna chiederlo a Fabio Bussotti, l’autore, e sicuramente il modo migliore è quello di prendere tra le mani il suo libro e leggerlo.

Fabio Bussotti, attore, drammaturgo, sceneggiatore e traduttore è nato a Trevi e vive tra Roma e Madrid. Si
è diplomato alla Bottega Teatrale di Firenze diretta da Vittorio Gassman. Ha vinto il Nastro d’Argento come
migliore attore non protagonista per il film Francesco diretto da Liliana Cavani. Nel 2008 ha pubblicato il
suo primo libro, L’invidia di Velasquez, a cui sono seguiti altri gialli legati a figure dell’arte. La ragazza di
Hopper è l’ultima sua pubblicazione, ad oggi.

Ma eccovi l’incipit:

Truro, Cape Cod, Massachusetts, 6 settembre 1963
“Dopo Marconi Beach, prosegui per altre cinque miglia…Quando vedi il cartello Welcome to South Truro,
comincia a rallentare perché, dopo trecento metri, devi girare a ovest per Fisher Beach…C’è l’indicazione
bella grande non puoi sbagliare…Percorri la Old Fisher Road per due miglia…Attento alle buche…Poi prendi
la Fisher Road sulla destra: la riconoscerai perché è sterrata…Dopo un miglio, troverai il sentiero di casa
nostra…Si trova sulla sinistra…Attento a non affondare nella sabbia, l’unico carroattrezzi è a Provincetown,
ma la domenica non lavora…”
Brian O’Doherty seguì alla lettera tutte le indicazioni che la signora Hopper gli aveva fornito al telefono la
sera prima ma, purtroppo, imboccata la Fisher Road, la barriera compatta di cespugli al bordo della strada
non permetteva di vedere dove iniziasse il sentiero di casa Hopper. “Neanche una capra ci passerebbe qui…”
Agli occhi del trentacinquenne artista e critico irlandese, incaricato dal Whitney Museum d intervistare il più
grande pittore americano vivente, nessun pertugio tra quei rovi ostili poteva essere considerato un sentiero
percorribile da un’auto media americana.
“Ti aspettiamo per le dieci. D’accordo, Brian?”
“D’accordo, signora Hopper, alle dieci…”
“Se hai problemi, telefonaci.”
“Non ce ne sarà bisogno.”
“E chiamami Jo, per favore…”Signora Hopper” mi fa sentire decrepita.”

Inizia in modo originale e brillante, questo giallo, con un rimando a specchio tra alcuni quadri di
Hopper, che incontriamo nel 1963 ancora vivo e vegeto nella sua villa a Cape Cod, e un omicidio
nella Roma dei giorni nostri.
Leggere i  primi due capitoli osservando le immagini dei quadri a cui si riferiscono è un esercizio
estetico davvero piacevole e stimolante, peccato che questo giochino non venga ripetuto lungo il
racconto perché avrebbe reso il libro ancora più sfizioso. Ciò nonostante, il romanzo si legge bene,
anche perché i personaggi sono piuttosto atipici, a partire dal cadavere – quello di una giovane
donna molto bella, molto colta, appassionata di libri e lingue, addetta però alle pulizie in un
albergo dell’Esquilino, compagna di un maschio rumeno certamente non alla sua altezza e con rapporti
poco approfonditi con colleghi e conoscenti.
La scena del delitto, una stanza d’albergo in cui la giovane non avrebbe avuto motivo di trovarsi,
ricorda (per la luce che filtra dalla finestra, per i colori e la disposizione dei mobili) un’opera di Hopper e il timido rilievo dell’agente Pizzo fa scattare una serie di collegamenti nel cervello del
commissario Bertone.
“Insomma, commissario, al Thyssen è esposto anche un quadro di un pittore che si chiama
Edward Hopper…Guardi.” Pizzo avvicinò lo schermo del suo cellulare al viso di Bertone “Il
quadro si chiama Stanza d’albergo ed è del 1931…Lo guardi con attenzione, per favore..” Il
commissario posò la tazzina e prese il cellulare. “A parte la pettinatura che è degli anni Trenta
e le valigie ai piedi del letto tutto il resto è la riproduzione fedele della scena che abbiamo
visto stamattina…”
La narrazione è molto convincente sotto l’aspetto dell’indagine, un po’ meno quando Bussotti
tratteggia l’animo tormentato del commissario e della sua vice, Paola Borgonovo. Entrambi dediti
al bere, quando si sfogano a vicenda risultano poco interessanti, le loro confessioni ricalcano il cliché
dell’ “alcolizzato perché bastonato dalla vita” e, francamente, è un’aggiunta di cui non si sentiva la
necessità.
Meglio, molto meglio tornare al lavoro: qui le cose si fanno serie e avvincenti, la scrittura è sicura, il
tono credibile e l’attacco di ogni capitolo piuttosto sorprendente perché riprende l’ultima frase del
precedente, ma sotto un’ottica diversa. Capisco che non sia chiarissimo, ma leggendo il libro
questa tecnica salta all’occhio e diverte parecchio. E poi, Santo Cielo!, se spiego tutto tolgo ai
lettori lo stimolo e il piacere di alcune invenzioni stilistiche che rendono particolare e interessante il
giallo in questione.

Chi era Edward Hopper?

Ma ora che abbiamo parlato del libro, passiamo all’artista a cui si accenna più di una volta.
Chi è Edward Hopper? Nasce il 22 luglio 1882 vicino a New York, studia illustrazione in una scuola
d’arte, nel 1906 visita l’Europa e si trattiene soprattutto a Parigi, dove tornerà nel 1909 in occasione di
un secondo viaggio.

Automat

Comincia a dipingere acquerelli e quadri a olio e dal 1924 in poi la sua carriera è in continua ascesa,
fino a rappresentare gli Stati Uniti alla biennale di Sao Paulo del Brasile nel 1967. Il 15 maggio dello stesso anno muore, lasciandoci una grande quantità di opere di altissimo livello.
Famosissimi i suoi interni, come AUTOMAT del 1927. Il titolo si riferisce solo apparentemente al ristorante self-service raffigurato perché il punto focale è la donna seduta al tavolo del locale stesso,
sola, con un cappello giallo che contrasta col buio del mondo esterno, lo sguardo assente che scivola sulla sedia vuota di fronte a lei. Le forme geometriche del locale, che circonda la donna come una
gabbia di vetro, donano un grado di ambiguità al quadro. AUTOMAT, perciò, si riferisce alla situazione
psicologica della donna e alle sue reazioni all’interno di quello spazio delimitato.

In HOTEL WINDOW, del 1956, riprende l’argomento della solitudine esistenziale. Una donna guarda attraverso la finestra dell’albergo, ma non si capisce se fissi un determinato oggetto o sia assorta nei suoi pensieri; certamente fuori dalla finestra, tutto sembra morto e teatrale. La strada è scarsamente illuminata e non sono riconoscibili dettagli della facciata della casa di fronte. L’immobilità di questa scena si trasferisce di conseguenza sulla donna, la cui posa è rigida. Le pareti hanno un color verde slavato, estremamente freddo e il buio fuori dalla finestra sembra premere attraverso i vetri per scivolare all’interno e assorbire tutto.

 

Ed eccoci a MORNING IN A CITY che richiama molto l’argomento del giallo di cui abbiamo parlato. Qui il pittore ci mostra una donna svestita davanti a una finestra che dà su un ambiente cittadino. La donna, però, guarda oltre la finestra in un angolo della stanza non visibile per chi osserva il quadro. La donna appare molto indifesa, la relativa oscurità della stanza in cui entra solo una piccola striscia di luce la isola come una grotta dal mondo esterno. C’è una sensazione di “acquario” in cui l’essere umano femminile è contenuto, privo di contatti col prossimo, solo con se stesso e le proprie paure.

Ma per allargare un po’ lo sguardo (soprattutto quello di Hopper che non è affatto così malinconico
come ve l’ho descritto finora), vorrei spostare la vostra attenzione sulle sue case, sui paesaggi
“minimalisti” della sua America rurale.

E allora eccovi LA COLLINA DEL FARO, del 1927, dove gli occhi scorrono dal basso della collina fino all’alto dove si erge l’edificio illuminato dal sole. Siccome il faro si trova in cima a un pendio molto ripido, non è possibile vedere il mare, ma il gioco di luci e ombre sui fianchi della collina riporta al movimento delle onde.

Ne IL GRANAIO DI COBB, dipinto tra il 1930 e il 1933, scompare il confine tra il prato, il campo e le costruzioni. Le tonalità del granaio coincidono in modo evidente con quelle della natura. Perciò, qui non si tratta di tracciare una linea che separi lo spazio della natura da quello della civiltà, ma di far convergere civiltà e natura, fondendole insieme. Questo quadro rispecchia gli effetti della Depressione economica e del grande esodo dalle campagne che, negli anni ’20, riduce la popolazione agricola e trasforma grandi superfici coltivabili in terreno infruttifero. In questo contesto la rappresentazione nostalgica del cascinale acquista particolare severità critica.

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