La nostra libraia legge l’incipit di StraStorie 2023 Metropolis Edition
Andrea B. Ferrari e Francesco Gallone hanno scritto l’incipit di questa nuova edizione di StraStorie 2023 – Metropolis Edition. La nostra Libraia, Mariana Winch Marenghi, lo ha letto per noi. Ma ora tocca a voi! Sotto con gli spunti!
👉Possono essere dati:
– partecipando agli incontri live e in streaming
– postandoli su www.strastorie.it, www.facebook.com/strastorie e https://www.facebook.com/ladradilibri.covodellaladra
– mandando una mail a strastorie@gmail.com
– commentando i video degli incontri sul canale Youtube della Libreria Covo della Ladra e sulle pagine Facebook di StraStorie e della Libreria
– inviando un messaggio Whatsapp al numero 348/7459627
Si consigliano totale libertà espressiva, fantasia Q.B. e un pizzico di sana follia creativa!
👉Se vi siete persi la prima puntata di StraStorie Metropolis Edition: https://www.youtube.com/watch?v=07hlQXnmx8w
Ascolta l’incipit
Leggi L’incipit
Che belli i tuoi progetti il tuo sudore
la tua fiducia cieca nel lavoro
che ci nobilita e che ci distrae
ma ti conviene fare in fretta sai
a sistemarti prima che il mattone
ritorni forte, peccato che…
Ministri, Comunque
Affori Nord (ANo) District, ore 20.59
Controlla l’ora sullo schermo del cellulare agitando velocissima la gamba destra, in attesa che le porte si dischiudano. L’ora di punta della metropolitana ormai è passata, ma quando scende sulla banchina comunque deve aggirare un paio di ostacoli, un energumeno di ritorno dalla palestra con un borsone che potrebbe contenere un cadavere, due ragazzotti egiziani con la brillantina in testa. Lei corre. Goffa. Ha sulle spalle lo zaino con dentro il computer del lavoro e svariati plichi di documenti cartacei, il libro sull’arredamento montessoriano che in metrò non ha letto perché il ritardo la agitava, una borsa con la schiscetta vuota e sporca. Lei corre. L’ascensore lo prende una vecchia messa giù da gara col deambulatore e i capelli blu, accompagnata da quello che sembra un ex sicario del KGB. Forse non ex. Le scale mobili non funzionano, e lei è in ritardo. Allora corre, su per le scale, quelle normali. Riemerge dalla stazione e la prima cosa che vede, in superficie, è un mattone. Bello, arancione, nuovo che pare appena sfornato. Lo mangerebbe. Si chiede cosa faccia lì, quel mattone, in mezzo alla corrente, proprio di fronte all’uscita. Non ha tempo per darsi risposte, né per spostare il laterizio che potrebbe far inciampare qualcuno. Corre. Attraversa la strada, i lampioni la guidano, a Milano ci sono certe vie che sono più luminose di notte che di giorno. Lei corre. Evita un paio di donne con le borse del supermercato che fa orari sempre più dilatati, praticamente scavalca una muta di cani con dogsitter, svolta. E inciampa. In un mattone. Nuovo, bello, arancione. E lei cade. Lo zaino le urta la nuca, la borsa con la schiscetta fa un brutto rumore. Con le mani graffiate, si rimette in piedi e riprende a correre. Questa volta non è stata colpa dei Dansko, si dice. Un’auto sfreccia, da un’altra rimbomba una conversazione telefonica in vivavoce declamata a tutto volume. Lei è stanca, dolorante, e in ritardo. Cerca le chiavi, non le trova, citofona al compagno, in casa a badare a loro figlio, che le apre il cancello e, finalmente, arriva nella sala condominiale. Quella dove di solito fanno yoga e il gruppo di lettura. Quella dove continuano a ripetersi quanto è bello vivere qui, quanto è figo vivere qui, abbiamo creato una comunità. Il suo compagno le ha raccontato un libro di Ballard sui condomini. Ma a lei, ogni volta che si trova all’assemblea condominiale, viene in mente soltanto la celeberrima scena di Fantozzi. O forse ci spera. Sarebbe più onesta.
South Porta Romana, ore 20.59
Controlla l’ora sul telefono e alza leggermente il fuoco sotto alla pentola che bolle fiacca.
Ancora cinque minuti e la pasta sarà pronta.
Poco più in là, sul ripiano scrostato della cucina, riposa una casseruola piena zeppa di sugo e polpette.
“La quiete prima della tempesta” pensa Annarella, passandosi la mano, senza anelli, sul pancione ormai di oltre otto mesi.
Maschio anche questo, che Nino solo maschi fa. Una garanzia.
Una garanzia che l’affitto sarà bloccato per un altro po’, anche se quello che pagano loro non è che è proprio una vera pigione.
Contratto non ne hanno, ma fanno il versamento volontario per mostrare la buona volontà.
Tutti i mesi Nino versa, col bollettino postale, dalle cinquanta alle cento euro, a seconda di come gli vanno i lavori.
Annarella non li vuole manco più sapere i lavori che fa Nino.
Così quando lo acchiappano non deve manco dirgli le bugie alle guardie e al giudice.
Lei le tarantelle di Nino non le sa, la mano sul cuore.
Di là, nell’altra stanza, è in corso una battaglia alla PlayStation.
Tonino, Vito e Gennaro si stanno scatenando che manco quando vince il Napoli.
Nino, se tutto è regolare, dovrebbe arrivare fra tre, due…
La porta dell’alloggio 9, scala B, di via dei Cinquecento, asse portante del quartiere Corvetto, si apre che non sono ancora le 21.03 e Nino, giacca azzurra di Deliveroo, naso aquilino che gli bacia i baffi neri come il carbone, sembra portarsi dietro tutto il cortile.
Ora di cena, quasi in tutti gli appartamenti.
Mimmo di Cetraro sta smadonnando appresso a Maria sua, che la pasta è scotta.
Al dente la mangia Mimmo, la pasta.
Cazzo, Annarella gliela cucinerebbe lei piuttosto che sentire tutte le sere lo stesso rosario.
Maria non dice una parola, mai. Evita di incazzarsi, così evita pure di doverci fare la pace con Mimmo. Che ogni volta che fanno la pace, la famiglia s’allarga. Stanno già in sei e sembra che l’Istituto abbia dato ’na stretta con gli sgomberi.
Abdul e Fatima si stanno appiccicando come due cani arrabbiati.
“Non è che pure il cous cous scuoce” pensa Annarella e ride.
No, di sicuro è colpa di Moussa, il figlio maggiore, che si sta mettendo sulla brutta strada.
Qualcuno dice che si è cantato alla Madama a Peppe e Michele, i nipoti di Santo di via San Dionigi.
Sono voci, ma in cortile ’na voce è più pesante di una verità.
Il pitbull di quelli di sotto abbaia come una bestia dell’Inferno.
Sono tre giorni che non la smette.
Quelli sono albanesi. Hanno in mano roba grossa ed è meglio farsi i cazzi propri.
Il cane lo tengono così arrabbiato perché se gli sbirri provano a fare la spaccata, sicuro come a Cristo che quello gli stacca una gamba.
La signora Maria Rosa, che ha settantotto anni, è scesa a buttare la monnezza. A piedi, che l’ascensore è latitante. E, come tutte le sere, sbatte la porta del gabbiotto così forte che Annarella ha un sussulto nella pancia.
«Amore mio, come state?» dice Nino che si è tolto la giacca, ma che non ha potuto fare niente per il suo naso a becco.
«Tutti bene, Ni’»
Nino le accarezza la pancia e sorride. Tutti maschi li fa, lui. Una garanzia. Poi esce sul balconcino e si sporge per vedere la voliera che ha “appoggiato” sul balcone di fianco e che lo occupa per intero.
L’alloggio 10 è sfitto da tre anni. Porta piombata e finestre pure, così lui si è allargato e ha montato una voliera che sembra la gabbia di un leone del circo.
La gabbia è aperta, dentro non vola manco una mosca.
«È pronto. Tutti a tavola!»
Dall’altra stanza la mandria arriva famelica.
Scappellotti, sgambetti e un paio di peti annunciano la fine della tregua e l’inizio della tempesta.
Nino si siede, ride soddisfatto dei suoi maschiacci e schiocca un bacio verso Annarella che fa il sugo con le polpette più buono di tutto il cortile.
«Mangiate, ragazzi, che poi papà se ne deve andare a faticare.»
Annarella lo guarda, si segna, e iniziano a mangiare.
«Ti porti pure a Raffaele?»
«Stasera sì, Annare’, che mi fa compagnia. Piuttosto, l’hai visto oggi?»
«No, manco per niente.»
«Starà giù che mi aspetta, lo sai che fa sempre quello che vuole.»
«Papà, te la faccio io compagnia» dice Tonino, il più grande, con la bocca tutta sporca di sugo.
«Certo a papà. Quando hai compiuto i dieci anni, almeno. Va bene?»
«Affare fatto, papà.»
ANo District, ore 21.35
L’Amministratore è in gamba, sarebbe stato un ottimo democristiano se esistesse ancora la politica. Da quasi mezz’ora riesce a non dare risposte e gestire l’equilibrio precario su cui pesano le questioni da affrontare, le imprese da gestire, le lamentele da acquietare, le richieste da accontentare. L’Avvocato lo osserva divertito con quel gusto con cui il gatto osserva il topolino che ogni volta che può tenta la fuga. L’Amministratore dà ragione d’ogni spesa, sa che non deve fare pause altrimenti qualcuno si insinuerà con una domanda scomoda o complicata, e allora si farà mattina. Giunge illeso al traguardo, sebbene conscio che il malcontento, in quel condominio di sessantasei appartamenti con un gemello al civico successivo, nasce dal giardino pubblico che li separa. Fiore all’occhiello, punto di merito, il giardino corrisponde a quell’area che la cooperativa edificatrice ha ceduto al Comune in cambio di alcune concessioni e blablablà. Un’area verde per il quartiere, a uso di tutti ma mantenuta con le spese condominiali dagli abitanti dei due palazzi gemelli, i quali con orgoglio la sfruttano e la vantano, lamentando il malcostume di tutti coloro che, forse a ragione, considerano ospiti.
«Come sapete» spiega l’Amministratore passando al punto tre dell’ordine del giorno, «l’anno venturo scade l’obbligo da parte del nostro condominio di gestire il parchetto, che andrebbe in gestione al Comune…»
Eccolo. Il fulmine che annuncia la tempesta. Non lo scaglia Giove, non lo scaglia Odino, bensì la Capomamma, temutissima ultrà dell’ozio da panchina e del diritto dei bambini all’aria aperta, arringatrice e aggregatrice di genitori, genitrici, nonni e pure qualche zio sul piede di guerra: «Seee, se lo gestisce il Comune diventa una discarica come quello di via Grazioli…».
Lei, che sta ancora tamponando coi fazzolettini di carta i graffi sulle mani, guarda di sfuggita la Capomamma e annuisce, pur con qualche reticenza. È vero che il Comune è lassista nella gestione dei problemi, ma in fin dei conti non è una verità necessaria che il parchetto debba essere vandalizzato. Il Professore del sesto piano, però, quello che ha sempre la testa tra le nuvole e la poesia tranne quando si parla di soldi da prendere e soldi da pagare, si oppone: «Non è neanche giusto che noi si paghi da privati per un servizio che la Cosa Pubblica dovrebbe concedere ai nostri concittadini semplicemente con le tasse che già paghiamo!».
«Ma parla come mangi, Prof!» ghigna il Milanista del terzo, quello con la bandiera sul balcone.
«Comunque ha ragione, il Professore, però sbaglia obiettivo: non è che non dobbiamo pagare, dobbiamo chiuderlo, renderlo privato, nostro!»
«Non è la funzione per cui è nato…»
«I ragazzi sfasciano le panchine!»
«Quelli che vengono a sporcare son sempre di fuori!»
«Fuori da cosa?»
«E adesso c’è pure uno che si accampa con la tenda!»
«Come fa, se chiudono i cancelli?»
«Scavalca! E dorme lì, indisturbato, nel nostro giardino!»
«E noi di notte nemmeno possiamo andarci!»
«Forse è per questo che dorme lì…»
«Comunque i bambini al pomeriggio della domenica disturbano! Dovremmo imporre una chiusura pomeridiana!»
«Anche tu hai cagato il cazzo con quello strazio di violino!»
«A proposito, chi è che gioca a Call of Duty col volume al massimo?»
«C’era una coppia che si baciava, l’altro giorno!»
«E allora?»
«Era una coppia di uomini!»
E poi lei sbotta. Perché voleva trattenersi, perché sembra una sciocchezza. Ma è una cosa semplice, e proprio per questo la indigna: «E comunque ci fanno cagare i cani! Esterni, e condomini. Ho dovuto chiamare i vigili.»
Ed è su quel “vigili” che l’assemblea ammutolisce e si volta a guardarla.
South Porta Romana, ore 22.03
Il cortile non dorme mai.
Al massimo riposa qualche ora quando i bambini sono a scuola.
È un’entità bifronte. Di giorno è palestra, campo da calcio (anche se il gioco del pallone sarebbe vietato da un regolamento, risalente al Ventennio), pista per le bici e palcoscenico per le prime esibizioni in società, anche se di personaggi in certi cortili non ce ne sono.
Mai.
Alla sera, dopo il coprifuoco non scritto, tutto cambia e attaccano quelli del turno di notte.
Ricettatori, mariuoli, spacciatori di piccolo cabotaggio e qualche figura a mezza via, quelli che non hanno ancora fatto il salto della barricata. Non appartengono alla schiera dei criminali, concetto che a South Porta Romana assume infinite sfumature e gradazioni, ma non stanno neppure più nella squadra del bene. Sono dei pendolari fra lo Yin e lo Yang. Dei puntini ora bianchi, ora neri a seconda della bisogna, delle rate della macchina da pagare e delle voglie delle macchinette alla sala VLT di piazzale Ferrara.
Nessuno urla, a parte quando scoppia qualche tafferuglio per questioni territoriali, o quando segna la squadra del cuore. Tutti camminano a passo felpato, fedeli all’adagio, valido a tutte le latitudini del globo terracqueo, che meno casino si fa, meno Madama si attira.
Nino ha dato la buonanotte a tutti i suoi figlioli, si è raccomandato di non fare prendere collera a mammà, poi ha carezzato di nuovo la pancia di Annarella, si è rimesso la giacca di Deliveroo ed è sceso a prendere la bici.
Appoggiato al cubo termico azzurrognolo ha trovato Raffaele, con la sua classica faccia da inquisitore.
Come se gli stesse per dire: “A’ Ni’, eccheccazzo, è ora di andare alla fatica”.
«Oè, Rafe’, che cosa hai fatto in giro tutto il giorno? Hai acchiappato ’na bella piccioncina?”
Raffaele scuote la testa come in segno di diniego e si limita a prendere il suo posto sopra il cubo termico.
«Tieniti che si parte, Rafe’.»
La bici elettrica di Nino, con la modifica che gli ha fatto Mohamed, il tunisino che lavora dall’elettrauto di via Ravenna, parte a tutta birra e, non appena girata la grande rotonda di Gabrio Rosa con i suoi giardini malandrini, si attesta su una velocità di crociera poco inferiore a uno scooter di media cilindrata.
«Grande invenzione, ’sta bici elettrica, eh, Rafe’? Non inquina, non serve la patente e manco l’assicurazione. L’investimento lo fai una volta sola, e via. Poi con tutti ’sti mamelucchi che vanno in giro per la città a consegnare sacchetti, sportine e pesci crudi col riso, uno in più non lo nota nessuno.
Tutti ci vedono, Rafe’, e nessuno si preoccupa. Piuttosto, mo’ infrattati dentro il cubo termico, che se ti vedono a te sì che si ricorderanno tutti di noi.»
Raffaele sparisce dentro al cubotto e si fa portare dove Nino ha deciso di lavorare, questa sera.
Raffaele non parla, ma pensa e valuta che da quando si è messo in società con Nino ha fatto l’affare della vita. Nino è stato quello che è riuscito a tirarlo fuori dall’equivoca relazione in cui si era infilato qualche anno prima, quando abitava in zona viale Monza, sul Naviglio della Martesana.
Cibo a volontà, una bella famigliola e nessuna costrizione a patto di farsi trovare pronto alla sera quando c’è da fare il palo. Fiducia reciproca e la voliera sempre aperta, giorno e notte.
Perché Raffaele è una cornacchia, ma questo a Nino importa poco, che nessuno è perfetto. Ed è anche un palo coi fiocchi per un ladro di case come lui. Efficace a tutti i piani e contro tutti i sistemi d’allarme.
SDENG!
L’ostacolo fa sbandare la bici e Nino se la cava per il rotto della cuffia.
Appena ha sorpassato piazzale Loreto e il cartello comunale che indicava il NoLo District, la bici ha urtato qualcosa nel mezzo della strada e Nino ha rischiato l’osso del collo.
Raffaele ha preso il volo e ha salvato le penne.
«Ma checcazz’ è stato?»
Nino appoggia la bici alla balaustra di metallo e si fa il segno di croce. In strada ci sono solo quattro o cinque macchine e nessuno è ancora ubriaco al punto di non vederlo e tirarlo sotto.
Nel centro della carreggiata di viale Brianza spunta un mattone, nuovo, bello, arancione.
Nino lo guarda, il semaforo sta per scattare e non è prudente starsene in mezzo alla strada, così gli tira un calcio per levarselo dai coglioni, ma rischia di spaccarsi un piede.
Il mattone, nuovo, bello, arancione sembra cementato.
«Mavaffanculoacchittèviv’!» urla Nino, poi recupera la bici e riprende il suo viaggio.
Il tragitto per la fatica di stasera è ancora lungo.
Nino ha trovato ’sto comprensorio di appartamenti nell’ANo District dove ci stanno un sacco di famiglie con la pila. Un comprensorio signorile, roba di lusso. Due palazzi gemelli, divisi solo da un giardino condominiale, aperto al pubblico. Una specie di quelle cose all’americana, con l’erba verde, i bambini tutti vestiti benissimo e le tate con lo sguardo assente.
Serie A.
Altro che il cortile di via dei Cinquecento, anche se Nino è convinto che il suo cortile non lo tradirebbe mai, mentre quello lì della serie A, capace che si canterebbe tutto il condominio per una rasatina aggiuntiva al praticello.
Nino ride e spera di aver fatto bene i conti.
Nell’appartamento del quarto piano, lato parchetto, condominio A, non ci dovrebbe essere nessuno.
Il tizio che ci abita solo con un paio di cani che sembrano vitelli il giovedì è sempre fuori e non torna fino alla sera del venerdì.
«L’ho curato quel cornuto, Rafe’. Son tre mesi che gli sto appresso. I giovedì non rientra. Sta fuori a fare i comodi suoi. E tu mi dirai, Rafe’, e i cani? E i cani un cazzo, Rafe’. Io mi son portato la bistecca con il sonnifero. L’ho fottuto a Annarella, che tanto mo’ che è incinta non poteva pigliarselo più. Uno che ha in casa due bestie così, sicuro come a Cristo che è pieno di roba di valore. Ci facciamo ’sto appartamento, la refurtiva me la imbosco nel cubo termico come al solito, e domani vado da Diego, il ricettatore mio, che fa girare un sacco di grana. Una roba facile, semplice come rubare la pensione a una vecchietta. Solo che io gli strappi alle vecchie non li faccio, mica sono incivile.»
Nino parla e parla, ma Raffaele nel cubotto non c’è.
È un po’ più avanti, sopra viale Lunigiana, e qualcosa di sotto, in strada, non gli torna proprio per niente.
ANo District, ore 22.07
«Che problema ha con i cani, signorina?»
La voce è profonda, il tono è minaccioso. L’Assessore non parla mai, alle assemblee, si comporta come un osservatore esterno. Poi dopo, per le scale, espone tutte le sue perplessità e le sue proposte, ma mai in sede ufficiale. Lo fa soprattutto all’ingresso pedonale, dove si attarda in lunghe invettive contro questo o quello, e nel parchetto, mentre è in giro con Zeus e Apollo, i suoi due chiassosissimi pinscher nani.
Al che, caspita, una vorrebbe mantenere la calma e con assertività portare l’interlocutore a realizzare l’insensatezza della propria affermazione, però le viene solo: «Ma che maniera di ragionare è?».
«La più lineare e assennata che un uomo può avere: io pago la manutenzione del giardino, e il servizio che voglio goderne è quello di farci cagare i miei cani. Non ne ho diritto?»
«Ma che cosa sta dicendo? Non ha senso!»
Lei è rubizza, trema, sente di stare precipitando.
«Esattamente come mi aspetto che la donna delle pulizie mi pulisca il pavimento o mi lavi il cesso. Io pago, e mi è dovuto. È mio.»
«Non è proprio così…» tenta di mediare l’Amministratore, timorosamente.
«E allora, se devo farci dormire i barboni, giocare i bambini, subire i compleanni con musica bandierine e coriandoli e non posso farci cagare il mio cane, cosa pago a fare?»
«Io pago perché voglio trovare i parchetti senza cacca di cane.»
«Quella è colpa dell’egiziano che avete assunto per le pulizie. Dovrebbe raccoglierla. È pagato.»
«Ma, Assessore, per strada sono i padroni dei cani a doverla raccogliere…»
«Per strada è su territorio pubblico. È di tutti. Questo lo paghiamo noi. Lo pago io. Io pago, e faccio cagare i miei cani dove voglio. Altrimenti non pago più.»
Lei si sente umiliata, arrabbiata, furiosa, le mani le bruciano, raccoglie lo zaino, la borsa con la schiscetta, il cappotto, con le gote rossissime si alza, scosta la sedia facendo più rumore di quanto vorrebbe, scappa via, attraverso i convenuti, attraverso la sala, attraverso l’androne, non prende le scale perché non vuole che il compagno e il bambino la vedano così, esce all’aria aperta, pensa di andare a bere qualcosa di forte, da qualche parte, che tristezza, però, una donna da sola che beve per un’umiliazione così sciocca e insensata, esce dal palazzo e tump!
Mattoni. Nuovi, belli, arancioni. Ci sbatte il naso contro. Accatastati uno sull’altro, costruiscono un qualcosa che non ha una logica o una funzione apparenti. Sono mattoni, tanti. Li segue. Arrivano all’ingresso del tanto discusso parchetto pubblico condominiale, che è chiuso, e poi vanno oltre. Come un muro di Berlino sghembo, sorto in una notte, ma senza la precisione tedesca a erigerlo. Alto, poi. “Come è possibile?” si chiede.
E d’improvviso, colta dal panico, si mette a correre, per tornare a casa, per andare dal suo compagno e dal suo bambino, prima che i muri possano separarli, prima che quello che sta succedendo succeda.
CONTINUA.
Aspettiamo i vostri suggerimenti per il prosieguo del romanzo!
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