Dicembre 6, 2024

Rendez vous al Covo di Paolo Tosini – Ladri di Notte

Mi sveglio immerso nel buio. Buio pesto. Pura oscurità. Come il fondo di un pozzo nero.
Apri gli occhi, coglione!
Non riconosco la voce, ma ubbidisco. Vengo accecato dalla luce di una lampada a forma di
spirale, appesa a un filo elettrico mezzo spelacchiato che pende da un gancio fissato al soffitto
di cemento grezzo, macchiato qua e là da una serie di pois gialli.
Sbatto gli occhi. Curiosamente, i pois invece di diminuire aumentano.
Li chiudo per qualche secondo. Ora sono pallini gialli su sfondo nero.
Provo a sollevare il capo. Una fitta lancinante saetta dalla nuca fino a raggiungere le viscere.
Urlo. La testa ricade sul pavimento con un tonfo sordo, attutito dalla superficie morbida di un
tappeto.
Vi passo sopra una mano e percepisco qualcosa di umido. E cosa cavolo è questa puzza? Sembra
ferro, come l’odore dei soldi, ma è più pungente.
Porto la mano davanti alla faccia. Adesso i pois sono di colore rosso.
È il tuo sangue, coglione!
Il mio sangue. Eppure si era detto che non doveva scorrerne nemmeno una goccia, che sarebbe
stato un lavoretto pulito.
Devo trovare un modo per trascinarmi fino alla parete e sollevare la schiena.
Ruoto gli occhi e allungo il braccio alla mia sinistra, dove la mano incontra la gamba di un tavolo.
Provo ad afferrarla e riesco a stringerla nel palmo.
Bene. Se provo a spingere verso il basso, il tappeto dovrebbe scivolare agevolmente.
Ci provo. Il tavolo si muove verso di me mentre io rimango immobile.
Spingo più forte. Il tappeto mi trascina verso il tavolo, che pare muoversi anch’esso di qualche
centimetro prima di piantarsi all’improvviso, rovesciando una bottiglia di vetro che precipita
dritta sulla bocca del mio stomaco.
È vuota, ma fa lo stesso un male del diavolo.
E mi esce un getto di sangue dalla bocca.
Rimango disteso per qualche minuto ad ansimare.
Distendo le braccia e constato che riesco a toccare il pavimento con le dita da entrambi i lati del
tappeto. Mi viene un’idea. Piego gli orli verso l’interno e adesso le braccia spuntano fuori dal
tappeto fino a metà degli avambracci.
Premo i palmi sul pavimento e comincio a spingere. Il tappeto si muove con me.
Con un paio di bracciate, come un surfista sdraiato sulla sua tavola, raggiungo l’onda che ho
deciso di cavalcare, cozzando, in realtà, la testa contro il muro.
Ma va bene così. Con i palmi ancora ben piantati sul pavimento prendo il necessario slancio e
provo a issare la schiena.
Ingoio il dolore come uno sciroppo troppo amaro e spingo, fin quasi a strapparmi i tendini delle
braccia. La pelle sulla testa mi si scortica a contatto con l’intonaco mentre risalgo la parete, ma
il tappeto fa il suo dovere e riesco a scivolare con il sedere fino a poggiarmi al battiscopa.
Sono in un bagno di sudore, la pelle brucia da morire, tossisco un altro grumo di sangue denso.
Ma ce l’ho fatta.
Non sei poi così stupido come pensavo, coglione!
Sogghigno di soddisfazione per la mia piccola vittoria. Me la godo fino in fondo.
Sollevo un lembo della camicia per verificare l’entità del danno. La ferita, da cui adesso il sangue
fluisce in un rivolo, è in realtà un grosso buco, dai margini smerlati e poco più grande di una
noce di buone dimensioni.
Mi guardo intorno. Quattro mura senza finestre e una porta su un solo lato. La lampadina che
penzola come l’impiccato di quel gioco da bambini dove devi indovinare le parole. Il tavolo di
legno e il ricordo di partite a scopa, di bevute e di planimetrie studiate con la massima attenzione.
Il tappeto persiano, comprato in un negozietto cinese, con i suoi tre rombi disegnati al centro e i
suoi colori ormai sbiaditi, fatto salvo per l’ampia macchia vermiglia che gli ho appena depositato
sopra.
Lo conosco bene questo posto.
Sei al covo, coglione!
Giusto! Proprio come si era detto. Se qualcosa fosse andato storto ci saremmo separati per poi
ritrovarci al covo. Ma qui ci sono solo io.
E poi, esattamente, cosa era andato storto?
Hai ucciso delle persone, coglione! Ecco cosa è andato storto!
Ora riconosco anche la voce. E ricordo i fatti.
Non era stato intenzionale. La colpa era tutta da attribuire a quell’idiota di un cassiere mano
lesta. Gli avevo intimato di non fare scherzi, ero stato piuttosto chiaro a proposito. E quello che
fa? Quando pensa che non lo sto più guardando si abbassa e fa scivolare la mano sotto la
scrivania.
Non ho avuto scelta. Ho dovuto sparare.
In piena faccia, coglione? E con un fucile?
Lui era stato contrario all’idea di utilizzare dei semiautomatici.
Io sostenevo che se la pistola metteva paura, il fucile poteva incutere puro terrore.
Nessuno avrebbe osato muovere un muscolo.
Il fucile, però, fa molto più rumore e molti più danni.
La testa del commesso si era accartocciata su se stessa, in un unico grumo di carne informe.
Si era scatenato l’inferno. La gente aveva cominciato a correre e a urlare.
Mi sono voltato. Sono partiti altri spari.
Lui stava lì, con il manico del suo fucile premuto contro un fianco e la canna inerme, rivolta
verso il basso. Alle sue spalle, la guardia giurata era distesa a terra, in una pozza di sangue, con
la pistola stretta in una mano e uno squarcio enorme all’altezza del collo.
Poi qualcuno mi aveva urtato e sono caduto.
Prima di perdere i sensi ho fatto in tempo a sentirlo gridare.
“Guarda cos’hai combinato, coglione!”
Mi sono risvegliato qua, al covo, anche se non ho idea di come ci sono arrivato.
E adesso, cos’è questo trambusto?
Mi giungono lamenti di sirene, pneumatici che stridono sull’asfalto, passi pesanti, voci.
Raccogli il fucile, coglione!
Eccolo lì. A pochi centimetri dai miei piedi. Da questa posizione non ci arrivo a prenderlo.
Mi butto a terra a peso morto. La ferita scotta e pulsa e invia stilettate infette per sollecitare i
centri nervosi del cervello.
Arranco, spinto da quell’impulso e dalla forza della disperazione.
Allungo un braccio e afferro l’arma.
Sento le grida di intimazione.
Poco prima che la porta si apra, la vista mi cade su una scritta tracciata di rosso al suo fianco.
SPARA, COGLIONE!

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