Il Calamaio elettronico ha preparato per il Covo uno speciale dedicato ai vampiri e alla loro storia letteraria.
C’è sempre un momento, nella notte, in cui il mondo rallenta.
Le città si assopiscono, le case si chiudono, e resta solo quel silenzio sospeso in cui l’immaginazione trova la sua fessura.
È lì che i vampiri camminano.
Non come ombre di un folklore lontano, ma come figure che continuano a interrogare ciò che abbiamo di più fragile: il corpo, il desiderio, l’idea stessa di sopravvivenza. Il mito dei vampiri, così come lo intendiamo oggi, non nasce nelle selve nebbiose della Transilvania ma in Europa centrale e prende forma, per come lo conosciamo, a metà del Settecento, quando le epidemie e le morti improvvise venivano spiegate con il ritorno dei defunti.
Una narrazione che nasce dalla paura di non comprendere, dal non sapere come proteggersi.
John William Polidori: l’inizio della letteratura vampiresca moderna
Per passare dal mito al romanzo, serve una voce.
Quella voce fu John William Polidori, medico, amico e segretario di Lord Byron.
È nel 1819 che pubblica Il Vampiro, primo racconto letterario a dare al vampiro un volto aristocratico: Lord Ruthven.
Affascinante, elegante, magnetico.
Un predatore che si muove in salotti e balli, non nelle tombe. Polidori trasforma l’orrore folklorico in simbolo morale, in perversione del desiderio, in attrazione verso ciò che ci consuma.
La sua biografia è segnata dall’inquietudine: giovane, brillante, tormentato dalla figura ingombrante di Byron, Polidori muore a soli 25 anni.
Forse non è un caso che il primo vampiro moderno abbia il volto dell’uomo che perde lentamente sé stesso.
Quando il mito entra nei media: fumetti, musica, immaginario
Il vampiro ha mutato pelle molte volte. Nei fumetti, diventa eroe e antieroe (pensiamo a Dampyr, Vampirella, Blade). Nei racconti, assume forme seduttive, melanconiche, politiche. Nella musica, il vampiro diventa ritmo notturno.
Nel 1988 i Pet Shop Boys pubblicano Heart, con un videoclip che reinterpreta la figura del vampiro in chiave pop decadente: il vampiro come seduzione inevitabile, come danza dell’attrazione che si sa già perduta.
Anche qui, come da Polidori in poi, l’amore è già infezione.
Nosferatu: quando il cinema prende la notte
Con Nosferatu (1922), F.W. Murnau scolpisce l’archetipo cinematografico: non più aristocratico brillante, ma creatura malata, un corpo che non è stato invitato al banchetto della vita.
Il vampiro diventa metafora della peste, della paura dell’altro, dell’invisibile che entra in casa quando dormiamo. Da qui, il mito non si ferma più: telefilm, serie, graphic novel, saghe young adult, videogiochi…
Il vampiro si adatta.
E continuare ad adattarsi è proprio il segreto della sua immortalità.
La cinematografia: il vampiro che guarda negli occhi lo spettatore
Se Nosferatu aveva scolpito la fame come malattia, il cinema negli anni successivi ha cercato di capire cosa succede quando il vampiro smette di essere solo predatore e diventa coscienza.
Il punto di svolta arriva con Intervista col vampiro (1994), tratto dal romanzo di Anne Rice.
Qui il vampiro non è più solo creatura della notte, ma essere senziente, dolorosamente umano, condannato a ricordare tutto ciò che ha perduto.
Lestat e Louis non sono mostri: sono specchi di ciò che ci spaventa del desiderio.
L’eterna giovinezza non è dono, ma tortura. La vita infinita non è potere, ma condanna a non appartenere a nulla. Il film, immerso in una sensualità gotica e febbrile, mette lo spettatore davanti alla domanda che ogni mito vampirico porta con sé: che cosa saremmo pronti a sacrificare pur di non morire?
Ed è qui che il vampiro diventa definitivamente figura tragica: chi ha tutto il tempo del mondo, ma non trova più un mondo in cui restare.
Stephen King e la persistenza dell’orrore
In Jerusalem’s Lot (1975), Stephen King porta il vampiro in una piccola città americana. Lo fa diventare comunità che marcisce dall’interno.
Non un castello in Transilvania, ma una strada qualsiasi, una casa qualsiasi.
L’orrore non è lontano: vive accanto a noi.
E questo, lo sappiamo fa più paura.
Transilvania, Dracula e la tradizione che continua a ispirare
Col tempo, le narrazioni popolari hanno concentrato la figura del vampiro in un luogo preciso: la Transilvania.
Non importa quanto sia reale o reinvenzione.
Ci serviva un luogo per i nostri incubi.
E quel luogo è diventato Dracula: il volto di un’Europa inquieta, affascinata dal potere, dalla morte, dall’inconoscibile.
Carletto il re dei mostri: l’innocenza che gioca con la paura
Persino nell’infanzia, i vampiri non spariscono.
Carletto il re dei mostri (Kaibutsu-kun) li rende buffi, colorati, teneri.
Paure che diventano gioco.
Per ricordarci che ciò che temiamo può anche farci ridere, se impariamo a guardarlo.
Il vampiro nella poesia: amore che divora
Nella poesia, il vampiro non è creatura notturna: è metafora di un amore che non nutre, ma consuma.
Lo scrive Charles Baudelaire, che parla dell’amata come vampiro che succhia
l’anima, lasciando una bellezza vuota e terribile:
L’amore, come il vampiro, non è solo ciò che desideriamo:
è ciò che ci rende fragili.
Perché il vampiro non tramonta mai
Perché il vampiro non è mostro.
È specchio.
Del nostro desiderio di restare.
Della nostra paura di finire.
Della nostra capacità di bruciare per qualcuno al punto da volerlo trattenere anche
quando dovrebbe andare.
I vampiri non parlano della morte.
Parlano della vita che rifiuta di spegnersi.
E per questo, continueranno a bussare alla porta delle nostre notti; finché avremo
ancora qualcosa da ricordare.
