LIBRERIA DEL GIALLO E DEL FANTASTICO
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Confine di Stato. Tra segreti bancari e umani sotterfugi

20,00
Lugano, 14 ottobre 2014: Miriam, ormai ottantenne, compie due omicidi. Arrestata e internata per accertamenti in ospedale psichiatrico, la donna non rivela a medici e polizia i motivi dei delitti. Dopo mesi di silenzio lei stessa propone di raccontare la sua storia a una giornalista, Maria. Le due donne si frequenteranno da luglio 2015 a dicembre dello stesso anno. Maria verrà così a sapere che l’anziana signora per molti anni è stata contrabbandiera di valuta dall’Italia alla Svizzera, accantonando un considerevole patrimonio, che si rivelerà un fardello ingombrante nel futuro di entrambe. Una storia a due, un intreccio al femminile che disegna una relazione di confidenze e di complicità, tra crimini, contrabbando e confessioni. Fanno da sfondo fiduciarie, banche ed evasioni fiscali, in uno spaccato storico sulle esportazioni illegali di capitali tra i due Stati dagli anni ’60 ai giorni nostri.
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Confine di Stato. Tra segreti bancari e umani sotterfugi

20,00
Lugano, 14 ottobre 2014: Miriam, ormai ottantenne, compie due omicidi. Arrestata e internata per accertamenti in ospedale psichiatrico, la donna non rivela a medici e polizia i motivi dei delitti. Dopo mesi di silenzio lei stessa propone di raccontare la sua storia a una giornalista, Maria. Le due donne si frequenteranno da luglio 2015 a dicembre dello stesso anno. Maria verrà così a sapere che l’anziana signora per molti anni è stata contrabbandiera di valuta dall’Italia alla Svizzera, accantonando un considerevole patrimonio, che si rivelerà un fardello ingombrante nel futuro di entrambe. Una storia a due, un intreccio al femminile che disegna una relazione di confidenze e di complicità, tra crimini, contrabbando e confessioni. Fanno da sfondo fiduciarie, banche ed evasioni fiscali, in uno spaccato storico sulle esportazioni illegali di capitali tra i due Stati dagli anni ’60 ai giorni nostri.
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Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe

14,00
"Questo dovrebbe essere un libro sul linguaggio inclusivo. E lo è. Ma è anche un libro che si domanda chi include chi, e dove." Quante volte sentiamo dire che cambiando le parole che usiamo cambieremo il mondo? Spesso ci abbiamo creduto, e forse ci crediamo ancora. Ma nonostante tutti gli sforzi il potere di trasformare la realtà e l'immaginario resta nelle mani di chi ha sempre avuto privilegi. Brigitte Vasallo mostra le strategie di adattamento di chi non ha ereditato nulla e si ritrova, come un errore nel sistema, a produrre cultura. Le sue riflessioni ridisegnano il rapporto tra le parole e le cose nell'epoca in cui il linguaggio è la merce per eccellenza. Un'epoca capace di tendere trappole proprio a chi cerca l'emancipazione attraverso le parole.
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Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe

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"Questo dovrebbe essere un libro sul linguaggio inclusivo. E lo è. Ma è anche un libro che si domanda chi include chi, e dove." Quante volte sentiamo dire che cambiando le parole che usiamo cambieremo il mondo? Spesso ci abbiamo creduto, e forse ci crediamo ancora. Ma nonostante tutti gli sforzi il potere di trasformare la realtà e l'immaginario resta nelle mani di chi ha sempre avuto privilegi. Brigitte Vasallo mostra le strategie di adattamento di chi non ha ereditato nulla e si ritrova, come un errore nel sistema, a produrre cultura. Le sue riflessioni ridisegnano il rapporto tra le parole e le cose nell'epoca in cui il linguaggio è la merce per eccellenza. Un'epoca capace di tendere trappole proprio a chi cerca l'emancipazione attraverso le parole.
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Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale

16,00
Zapruder è il quadrimestrale dell'associazione Storie in Movimento, edito da Odradek dalla primavera del 2003. Ogni numero è costituito da una prima parte, la rubrica Zoom, che raccoglie alcuni saggi sull'argomento monografico di tutto il numero. Ci sono poi le Schegge, articoli più brevi e spesso in collegamento con il tema del numero, e una sezione dedicata alle Immagini. Altre rubriche, che vanno e vengono a seconda dei temi trattati e di chi cura i numeri, sono: "in cantiere", "la ricerca che non c'è", "archivi", "la storia al lavoro", "storie di classe", "luoghi", "altre narrazioni", "interventi". In chiusura vengono presentate sempre alcune recensioni.
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Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale

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Zapruder è il quadrimestrale dell'associazione Storie in Movimento, edito da Odradek dalla primavera del 2003. Ogni numero è costituito da una prima parte, la rubrica Zoom, che raccoglie alcuni saggi sull'argomento monografico di tutto il numero. Ci sono poi le Schegge, articoli più brevi e spesso in collegamento con il tema del numero, e una sezione dedicata alle Immagini. Altre rubriche, che vanno e vengono a seconda dei temi trattati e di chi cura i numeri, sono: "in cantiere", "la ricerca che non c'è", "archivi", "la storia al lavoro", "storie di classe", "luoghi", "altre narrazioni", "interventi". In chiusura vengono presentate sempre alcune recensioni.
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Dimmi come ti chiami e ti dirò perché

15,00
Se pensi di scoprire in queste pagine quanto il tuo nome o cognome ti porterà fortuna oppure jella, se punti a sapere quale numero giocare al lotto in base a come ti chiami, puoi fare una cosa sola: riporre delicatamente il volumetto nello scaffale della libreria. Aprilo, compralo, leggilo - invece - se sei curioso di sapere quale storia hanno i nomi e cognomi italiani, perché si sono diffusi in una certa epoca o in una certa zona, quale legame hanno con la moda, la cultura, la storia del nostro paese. Scoprirai, ad esempio, che Mario è un nome d'origine etrusca e non ha nulla a che spartire con Maria, così come Martina non è il diminutivo di Marta, ma il femminile del latino Martinus e Sabrina non c'entra niente con Sabina (ma molto col film degli anni Cinquanta). Scoprirai che il cognome Sesso proviene dal nome di un centro presso Reggio Emilia, Seno è la variante settentrionale di senno, Fallo deriva da una voce dialettale per faldo ossia "falda". Scoprirai che Manzo (coi suoi derivati Manzini, Manzoni, Manzolini) non ha origini bovine, ma deriva dal nome germanico Mand e Agnolotti non si deve a qualche antenato ingordo, ma a un avo di nome Agnolo, variante toscana di Angelo. Scoprirai che... tu come hai detto che ti chiami, scusa?
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Dimmi come ti chiami e ti dirò perché

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Se pensi di scoprire in queste pagine quanto il tuo nome o cognome ti porterà fortuna oppure jella, se punti a sapere quale numero giocare al lotto in base a come ti chiami, puoi fare una cosa sola: riporre delicatamente il volumetto nello scaffale della libreria. Aprilo, compralo, leggilo - invece - se sei curioso di sapere quale storia hanno i nomi e cognomi italiani, perché si sono diffusi in una certa epoca o in una certa zona, quale legame hanno con la moda, la cultura, la storia del nostro paese. Scoprirai, ad esempio, che Mario è un nome d'origine etrusca e non ha nulla a che spartire con Maria, così come Martina non è il diminutivo di Marta, ma il femminile del latino Martinus e Sabrina non c'entra niente con Sabina (ma molto col film degli anni Cinquanta). Scoprirai che il cognome Sesso proviene dal nome di un centro presso Reggio Emilia, Seno è la variante settentrionale di senno, Fallo deriva da una voce dialettale per faldo ossia "falda". Scoprirai che Manzo (coi suoi derivati Manzini, Manzoni, Manzolini) non ha origini bovine, ma deriva dal nome germanico Mand e Agnolotti non si deve a qualche antenato ingordo, ma a un avo di nome Agnolo, variante toscana di Angelo. Scoprirai che... tu come hai detto che ti chiami, scusa?
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Cara Giulia

15,00
Le parole di un padre che ha scelto di non restare in silenzio. Un appello potente alle famiglie, alle scuole e alle istituzioni. Il libro è parte di un progetto più ampio a sostegno delle vittime di violenza di genere. Dal giorno dei funerali della figlia Giulia, Gino Cecchettin ha scelto di condividere il proprio dolore cercando di affrontarlo e renderlo costruttivo perché possa essere di aiuto alle giovani e ai giovani del nostro Paese. In questo libro, attraverso la storia di Giulia, si interroga sulle radici profonde della cultura patriarcale della nostra società. «Tu in questi giorni sei diventata un simbolo pubblico», scrive Gino Cecchettin alla figlia Giulia e a quanti vorranno ascoltare le sue sofferte parole di impegno, di consapevolezza e di coraggio. «Sei la mia Giulia e sarai per sempre la mia Giulia. Ma non sei più solo questo. Tu dopo quanto è successo sei anche la Giulia di tutti, quella che sta parlando a tutti. E io sento forte il dovere di manifestare al mondo che persona eri e, soprattutto, di cercare attraverso questo di fare in modo che altre persone si pongano le mie stesse domande».
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I precursori di Lombroso

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I precursori di Lombroso

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Ombre nella mente. Lombroso e lo scapigliato

15,00
Quando il giovane Carlo Dossi, esponente di spicco della Scapigliatura milanese, lesse L'uomo delinquente di Cesare Lombroso, ne rimase folgorato. L'opera conteneva categorie psicologiche impressionanti e osservazioni cliniche sul legame fra genio e follia. Travolto dall'infatuazione per quelle idee, Dossi scrisse subito a Lombroso esprimendogli la propria stima. Fra i due si stabilì allora uno strano legame epistolare destinato a mutare nel tempo.Dapprima Dossi, fine umorista sensibile alle bizzarrie della mente, divenne suo collaboratore a distanza con l'invio dei più disparati testi letterari segnati dalla pazzia, contributi che l'alienista prontamente utilizzava nelle sue opere. Poi Dossi sentì l'esigenza di interpellare Lombroso come medico a cui inviare informazioni sulle proprie sofferenze psichiche. Assorbite le teorie lombrosiane, Dossi si trasformò ben presto in una sorta di psichiatra in grado di formulare giudizi diagnostici, come capitò con l'opera I mattoidi e con un originalissimo articolo scritto per la rivista di criminologia diretta da Lombroso.Dopo vent'anni di conoscenza reciproca, soprattutto epistolare, i vari Dossi che erano mutati nel tempo (collaboratore, paziente e scrittore-alienista) si unificavano finalmente in una figura singola, che trovava nella Grafologia di Lombroso una sistemazione precisa accanto ad altri geni un po' matti, come Zola, Ariosto, Tolstoj e Schopenhauer. In fondo se il genio era una forma di pazzia, non doveva essere accertato, ma diagnosticato. Lo strano rapporto fra Lombroso e Dossi – che finì per influenzare profondamente entrambi – viene qui raccontato per la prima volta sulla base di un epistolario inedito e di documenti finora rimasti nell'ombra. L'incantevole ricostruzione storica, da cui emergono molti dettagli spassosi, è anche il ritratto dell'esuberante atmosfera intellettuale dell'Italia ottocentesca.
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Ombre nella mente. Lombroso e lo scapigliato

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Quando il giovane Carlo Dossi, esponente di spicco della Scapigliatura milanese, lesse L'uomo delinquente di Cesare Lombroso, ne rimase folgorato. L'opera conteneva categorie psicologiche impressionanti e osservazioni cliniche sul legame fra genio e follia. Travolto dall'infatuazione per quelle idee, Dossi scrisse subito a Lombroso esprimendogli la propria stima. Fra i due si stabilì allora uno strano legame epistolare destinato a mutare nel tempo.Dapprima Dossi, fine umorista sensibile alle bizzarrie della mente, divenne suo collaboratore a distanza con l'invio dei più disparati testi letterari segnati dalla pazzia, contributi che l'alienista prontamente utilizzava nelle sue opere. Poi Dossi sentì l'esigenza di interpellare Lombroso come medico a cui inviare informazioni sulle proprie sofferenze psichiche. Assorbite le teorie lombrosiane, Dossi si trasformò ben presto in una sorta di psichiatra in grado di formulare giudizi diagnostici, come capitò con l'opera I mattoidi e con un originalissimo articolo scritto per la rivista di criminologia diretta da Lombroso.Dopo vent'anni di conoscenza reciproca, soprattutto epistolare, i vari Dossi che erano mutati nel tempo (collaboratore, paziente e scrittore-alienista) si unificavano finalmente in una figura singola, che trovava nella Grafologia di Lombroso una sistemazione precisa accanto ad altri geni un po' matti, come Zola, Ariosto, Tolstoj e Schopenhauer. In fondo se il genio era una forma di pazzia, non doveva essere accertato, ma diagnosticato. Lo strano rapporto fra Lombroso e Dossi – che finì per influenzare profondamente entrambi – viene qui raccontato per la prima volta sulla base di un epistolario inedito e di documenti finora rimasti nell'ombra. L'incantevole ricostruzione storica, da cui emergono molti dettagli spassosi, è anche il ritratto dell'esuberante atmosfera intellettuale dell'Italia ottocentesca.
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La Galassia Lombroso

24,00
Cesare Lombroso è stato senza dubbio uno degli intellettuali italiani che hanno esercitato maggiore influenza sulle politiche sociali in tutto il mondo. Alla fine dell'Ottocento, poi, l'America Latina impazzì per le sue teorie: tournée nei teatri, conferenze di fronte a capi di Stato e parlamenti, sembrava che si fosse trovata la formula magica per disinnescare i conflitti razziali o di classe. Questo enorme successo non fu casuale ma il prodotto dell'attivismo di una vera e propria "galassia" che si riuniva attorno allo studioso piemontese, ovvero la famiglia e i ricercatori a lui più vicini, capace di operare una sorta di "marketing" delle idee oltre oceano e di costruire una rete di relazioni importante, sfociata in viaggi, traduzioni di libri, riviste e incontri accademici. Ecco allora che in Brasile, in Argentina e a Cuba si sviluppò un vero e proprio culto per la categoria di "criminale nato", per la "fisiognomica", con un influsso molto forte tanto sul sistema repressivo, carcerario e manicomiale quanto sulle relazioni razziali di questi paesi. Un fenomeno culturale di enorme significato e finora dimenticato.
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La Galassia Lombroso

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Cesare Lombroso è stato senza dubbio uno degli intellettuali italiani che hanno esercitato maggiore influenza sulle politiche sociali in tutto il mondo. Alla fine dell'Ottocento, poi, l'America Latina impazzì per le sue teorie: tournée nei teatri, conferenze di fronte a capi di Stato e parlamenti, sembrava che si fosse trovata la formula magica per disinnescare i conflitti razziali o di classe. Questo enorme successo non fu casuale ma il prodotto dell'attivismo di una vera e propria "galassia" che si riuniva attorno allo studioso piemontese, ovvero la famiglia e i ricercatori a lui più vicini, capace di operare una sorta di "marketing" delle idee oltre oceano e di costruire una rete di relazioni importante, sfociata in viaggi, traduzioni di libri, riviste e incontri accademici. Ecco allora che in Brasile, in Argentina e a Cuba si sviluppò un vero e proprio culto per la categoria di "criminale nato", per la "fisiognomica", con un influsso molto forte tanto sul sistema repressivo, carcerario e manicomiale quanto sulle relazioni razziali di questi paesi. Un fenomeno culturale di enorme significato e finora dimenticato.
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Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso

12,00
n una grigia mattina di dicembre del 1870 Cesare Lombroso esaminò il cranio di Giuseppe Villella, originario di Motta Santa Lucia in Calabria e morto a Pavia, dove era detenuto. Il giovane scienziato si convinse di aver fatto una scoperta sensazionale: nacque cosi l'Antropologia criminale, destinata a riscuotere un enorme e controverso successo internazionale. Ladro o brigante, per un secolo e mezzo Villella non fu che un reperto scientifico, il "totem dell'Antropologia criminale". Nel 2009, l'inaugurazione del nuovo allestimento del Museo "Cesare Lombroso" ha provocato la sorprendente resurrezione mediatica del brigante. Oggi è un personaggio mitico, il totem della lotta contro il razzismo antimeridionale, simbolo del riscatto delle popolazioni native del Regno delle Due Sicilie. L'antropologa nativa Maria Teresa Milicia ricostruisce la scarna esistenza del "brigante" su solide basi documentali e propone un'inedita analisi del razzismo attribuito a Lombroso.
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Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso

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n una grigia mattina di dicembre del 1870 Cesare Lombroso esaminò il cranio di Giuseppe Villella, originario di Motta Santa Lucia in Calabria e morto a Pavia, dove era detenuto. Il giovane scienziato si convinse di aver fatto una scoperta sensazionale: nacque cosi l'Antropologia criminale, destinata a riscuotere un enorme e controverso successo internazionale. Ladro o brigante, per un secolo e mezzo Villella non fu che un reperto scientifico, il "totem dell'Antropologia criminale". Nel 2009, l'inaugurazione del nuovo allestimento del Museo "Cesare Lombroso" ha provocato la sorprendente resurrezione mediatica del brigante. Oggi è un personaggio mitico, il totem della lotta contro il razzismo antimeridionale, simbolo del riscatto delle popolazioni native del Regno delle Due Sicilie. L'antropologa nativa Maria Teresa Milicia ricostruisce la scarna esistenza del "brigante" su solide basi documentali e propone un'inedita analisi del razzismo attribuito a Lombroso.
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Cesare Lombroso

24,00
"Grande" e "fantastico" Lombroso, scriveva Freud, e in effetti gli scritti di questo scienziato ottocentesco, famoso e controverso, sono oggetto di una rinnovata attenzione anche da parte dei non addetti ai lavori e paiono destinati a essere indagati e reinterpretati ancora a lungo. Egli attraversò, influenzandola, la cultura del suo tempo, non solo in Italia. Le sue idee sulla criminalità e il sistema penale, e più in generale il suo approccio innovativo e dissacrante, ma non scevro di pregiudizi e luoghi comuni, ad alcune delle grandi questioni del mondo contemporaneo, ebbero una circolazione internazionale, suscitarono dibatti, ispirarono un'ampia gamma di autori in campi diversi. Talvolta le sue teorie vennero fraintese e manipolate, talvolta furono messe in pratica. Questo volume offre le voci di studiosi di diversi paesi e di differenti discipline che nei loro percorsi di ricerca si sono occupati dell'opera lombrosiana, componendole ad unità anche attraverso il confronto con le idee e le esperienze di altri scienziati vissuti in un'epoca, quella del Positivismo, in cui la scienza avanzò la pretesa di riorganizzare la società attraverso una visione laica e materialistica della vita.
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"Grande" e "fantastico" Lombroso, scriveva Freud, e in effetti gli scritti di questo scienziato ottocentesco, famoso e controverso, sono oggetto di una rinnovata attenzione anche da parte dei non addetti ai lavori e paiono destinati a essere indagati e reinterpretati ancora a lungo. Egli attraversò, influenzandola, la cultura del suo tempo, non solo in Italia. Le sue idee sulla criminalità e il sistema penale, e più in generale il suo approccio innovativo e dissacrante, ma non scevro di pregiudizi e luoghi comuni, ad alcune delle grandi questioni del mondo contemporaneo, ebbero una circolazione internazionale, suscitarono dibatti, ispirarono un'ampia gamma di autori in campi diversi. Talvolta le sue teorie vennero fraintese e manipolate, talvolta furono messe in pratica. Questo volume offre le voci di studiosi di diversi paesi e di differenti discipline che nei loro percorsi di ricerca si sono occupati dell'opera lombrosiana, componendole ad unità anche attraverso il confronto con le idee e le esperienze di altri scienziati vissuti in un'epoca, quella del Positivismo, in cui la scienza avanzò la pretesa di riorganizzare la società attraverso una visione laica e materialistica della vita.
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Bioetica. Rivista interdisciplinare (2020)

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La scelta

20,00
Sigfrido Ranucci è uno di quegli uomini che coincidono in modo assoluto con il lavoro che si sono scelti. Insieme alla sua équipe di Report – programma televisivo amatissimo e odiato, uno dei baluardi del giornalismo d’inchiesta in Italia – ogni giorno si dedica a vagliare informazioni, collegare eventi, ascoltare voci per decidere come raccontare le notizie che qualcuno vorrebbe rimanessero sotto silenzio. La forza di Report è nella semplicità della scelta: offrire ai cittadini il romanzo crudo dei fatti attraverso un rigoroso lavoro di ricerca, anche quando la strada è irta di pericoli che toccano le vite personali dei giornalisti. Per la prima volta Ranucci racconta il cammino che lo ha condotto sin qui; lo fa scegliendo alcune inchieste fondamentali di cui svela i retroscena, ma anche evocando figure – come suo padre, atleta e finanziere di grande carisma, e il suo maestro Roberto Morrione, fondatore di Rai News 24 – che hanno forgiato in lui la capacità di portare fino in fondo ogni scelta: perché fare giornalismo sul campo significa prendere decisioni che cambiano per sempre il corso delle cose, in senso intimo e collettivo. Da queste pagine emerge l’autoritratto coraggioso di un uomo che, nonostante la pressione costante della realtà nei suoi aspetti più duri, non cede al cinismo, non smette di chiedersi e di chiederci: “Qual è la scelta giusta?”. E di trovare ogni volta la risposta, per rispettare la promessa che lo lega a un pubblico che ha ancora a cuore la legalità e la giustizia sociale.
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La scelta

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Sigfrido Ranucci è uno di quegli uomini che coincidono in modo assoluto con il lavoro che si sono scelti. Insieme alla sua équipe di Report – programma televisivo amatissimo e odiato, uno dei baluardi del giornalismo d’inchiesta in Italia – ogni giorno si dedica a vagliare informazioni, collegare eventi, ascoltare voci per decidere come raccontare le notizie che qualcuno vorrebbe rimanessero sotto silenzio. La forza di Report è nella semplicità della scelta: offrire ai cittadini il romanzo crudo dei fatti attraverso un rigoroso lavoro di ricerca, anche quando la strada è irta di pericoli che toccano le vite personali dei giornalisti. Per la prima volta Ranucci racconta il cammino che lo ha condotto sin qui; lo fa scegliendo alcune inchieste fondamentali di cui svela i retroscena, ma anche evocando figure – come suo padre, atleta e finanziere di grande carisma, e il suo maestro Roberto Morrione, fondatore di Rai News 24 – che hanno forgiato in lui la capacità di portare fino in fondo ogni scelta: perché fare giornalismo sul campo significa prendere decisioni che cambiano per sempre il corso delle cose, in senso intimo e collettivo. Da queste pagine emerge l’autoritratto coraggioso di un uomo che, nonostante la pressione costante della realtà nei suoi aspetti più duri, non cede al cinismo, non smette di chiedersi e di chiederci: “Qual è la scelta giusta?”. E di trovare ogni volta la risposta, per rispettare la promessa che lo lega a un pubblico che ha ancora a cuore la legalità e la giustizia sociale.
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Le belle

21,00
Nella seconda metà del Seicento, nei più importanti palazzi nobiliari, intere stanze erano destinate a ospitare i ritratti delle «donne famose» del tempo, quasi a catalogarle. Dame contemporanee, influenti personaggi di corte o bellezze leggendarie la cui fama si diffondeva velocemente fra i circoli dell'aristocrazia europea. Mogli di principi o future madri di cardinali, anelli fondamentali di alleanze politiche e pedine insostituibili di complesse strategie familiari. Personaggi celebri per la loro bellezza, spesso all'origine di passioni incoercibili e di eventi drammatici. Queste tele, note come «le Belle», popolavano le maggiori collezioni italiane ed europee. Una moda che aveva precedenti illustri e che Francesca Cappelletti racconta con appassionata ammirazione e competenza in queste pagine. Un affascinante viaggio che ci accompagna nelle camere dedicate ai ritratti femminili della cinquecentesca collezione Farnese, o in quella del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, passando per le «Stanze delle Veneri», allestimenti fra il mitologico e il licenzioso in cui erano esposti capolavori della pittura rinascimentale raffiguranti le dee e le eroine delle favole antiche, in un tributo non solo a Venere, dea dell'amore, ma anche alle grazie delle protagoniste, spesso sfortunate, dei miti ovidiani. La presenza in questa storia di alcune straordinarie figure catalizzatrici, come per esempio Clelia Farnese, Lavinia Fontana o Maria Mancini, è un ulteriore invito a riflettere «sulle metamorfosi del ritratto femminile, ma anche sul ruolo di alcune donne, sulla loro capacità di mettere in scena se stesse, di creare un personaggio in grado di autorappresentarsi e di generare forme di ritratto». Avvicinandosi ai loro volti fino a sfiorarli, Francesca Cappelletti ne disvela passioni, paure e speranze, ma soprattutto offre una nuova prospettiva per indagare il ruolo della donna nella storia.
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Le belle

21,00
Nella seconda metà del Seicento, nei più importanti palazzi nobiliari, intere stanze erano destinate a ospitare i ritratti delle «donne famose» del tempo, quasi a catalogarle. Dame contemporanee, influenti personaggi di corte o bellezze leggendarie la cui fama si diffondeva velocemente fra i circoli dell'aristocrazia europea. Mogli di principi o future madri di cardinali, anelli fondamentali di alleanze politiche e pedine insostituibili di complesse strategie familiari. Personaggi celebri per la loro bellezza, spesso all'origine di passioni incoercibili e di eventi drammatici. Queste tele, note come «le Belle», popolavano le maggiori collezioni italiane ed europee. Una moda che aveva precedenti illustri e che Francesca Cappelletti racconta con appassionata ammirazione e competenza in queste pagine. Un affascinante viaggio che ci accompagna nelle camere dedicate ai ritratti femminili della cinquecentesca collezione Farnese, o in quella del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, passando per le «Stanze delle Veneri», allestimenti fra il mitologico e il licenzioso in cui erano esposti capolavori della pittura rinascimentale raffiguranti le dee e le eroine delle favole antiche, in un tributo non solo a Venere, dea dell'amore, ma anche alle grazie delle protagoniste, spesso sfortunate, dei miti ovidiani. La presenza in questa storia di alcune straordinarie figure catalizzatrici, come per esempio Clelia Farnese, Lavinia Fontana o Maria Mancini, è un ulteriore invito a riflettere «sulle metamorfosi del ritratto femminile, ma anche sul ruolo di alcune donne, sulla loro capacità di mettere in scena se stesse, di creare un personaggio in grado di autorappresentarsi e di generare forme di ritratto». Avvicinandosi ai loro volti fino a sfiorarli, Francesca Cappelletti ne disvela passioni, paure e speranze, ma soprattutto offre una nuova prospettiva per indagare il ruolo della donna nella storia.
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Omicidio di Emma Canton

15,60
Quello di Emma Canton, la ragazza 22enne assassinata brutalmente nella notte tra sabato 4 e domenica del 5 febbraio del 1933 a Sant’Antonio Tortal da Abele De Barba, è un omicidio orrendo per le modalità adottate dall’assassino. Un omicidio reso ancor più odioso perché Emma era incinta di due mesi a seguito della relazione poi interrotta con lo stesso suo carnefice. Di più. Come rivelano gli atti processuali conservati all’Archivio di Stato di Venezia, Emma, anche da morta, sarà lasciata sola dalla comunità in cui vive. Su una sessantina di testimoni, infatti, ad inquadrare la personalità dell’assassino è stata solo un’altra donna, la vicina di casa dell’omicida, che dichiarerà agli inquirenti: “E’ un giovane falso, e nell’intimità un violento”! Per tutti gli altri, Abele De Barba è un bravo giovane laborioso! Spiace constatare che novant’anni sembrano trascorsi inutilmente, dal momento che anche oggi succedono fatti analoghi, dove talvolta è ancora la vittima ad essere colpevolizzata. Ma le indagini sul caso Canton sono condotte egregiamente e le prove di colpevolezza sono inconfutabili, tali da inchiodare l’assassino. Così il 12 ottobre 1933, otto mesi dopo il delitto e con una serie di colpi di scena, la Corte d’Assise di Belluno condanna all’ergastolo, inasprito da un anno di isolamento, il 22enne di Sant’Antonio di Tortal, Abele De Barba, per aver ucciso per motivi abbietti e con premeditazione la povera Emma Canton. Ma l’ergastolo in Italia, non significa fine pena mai, come si vedrà, nemmeno per i peggiori criminali.
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Omicidio di Emma Canton

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Quello di Emma Canton, la ragazza 22enne assassinata brutalmente nella notte tra sabato 4 e domenica del 5 febbraio del 1933 a Sant’Antonio Tortal da Abele De Barba, è un omicidio orrendo per le modalità adottate dall’assassino. Un omicidio reso ancor più odioso perché Emma era incinta di due mesi a seguito della relazione poi interrotta con lo stesso suo carnefice. Di più. Come rivelano gli atti processuali conservati all’Archivio di Stato di Venezia, Emma, anche da morta, sarà lasciata sola dalla comunità in cui vive. Su una sessantina di testimoni, infatti, ad inquadrare la personalità dell’assassino è stata solo un’altra donna, la vicina di casa dell’omicida, che dichiarerà agli inquirenti: “E’ un giovane falso, e nell’intimità un violento”! Per tutti gli altri, Abele De Barba è un bravo giovane laborioso! Spiace constatare che novant’anni sembrano trascorsi inutilmente, dal momento che anche oggi succedono fatti analoghi, dove talvolta è ancora la vittima ad essere colpevolizzata. Ma le indagini sul caso Canton sono condotte egregiamente e le prove di colpevolezza sono inconfutabili, tali da inchiodare l’assassino. Così il 12 ottobre 1933, otto mesi dopo il delitto e con una serie di colpi di scena, la Corte d’Assise di Belluno condanna all’ergastolo, inasprito da un anno di isolamento, il 22enne di Sant’Antonio di Tortal, Abele De Barba, per aver ucciso per motivi abbietti e con premeditazione la povera Emma Canton. Ma l’ergastolo in Italia, non significa fine pena mai, come si vedrà, nemmeno per i peggiori criminali.
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Contro Antigone

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«Vittima com'è di una disperata follia di annientamento e di distruzione, Antigone non ama nessuno, così come non ama sé stessa: il suo solo e vero amore è la morte». In una rilettura controcorrente della più celebre figura tragica della classicità, Eva Cantarella smonta pezzo per pezzo le basi su cui si fonda il mito di Antigone. Per la sua determinazione a dare sepoltura al fratello Polinice, violando la legge cittadina per obbedire a una legge non scritta, Antigone ha rappresentato nei secoli il modello insuperato di chi si oppone a un regime tirannico, di chi reagisce di fronte ai diritti calpestati e negati, di ogni donna in lotta contro il potere maschile. Ma questa figura che sembra racchiudere in sé ogni virtù non corrisponde al personaggio cui Sofocle ha dedicato l'omonima tragedia oltre 2500 anni fa. Ed è esplorando la distanza tra mito e personaggio che Eva Cantarella mette in luce lati sorprendentemente negativi dell'eroina da tutti osannata e arriva a contestare il ruolo di despota attribuito a Creonte, protagonista di una drammatica vicenda umana e politica che lo rende una figura non meno interessante e non meno tragica.
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«Vittima com'è di una disperata follia di annientamento e di distruzione, Antigone non ama nessuno, così come non ama sé stessa: il suo solo e vero amore è la morte». In una rilettura controcorrente della più celebre figura tragica della classicità, Eva Cantarella smonta pezzo per pezzo le basi su cui si fonda il mito di Antigone. Per la sua determinazione a dare sepoltura al fratello Polinice, violando la legge cittadina per obbedire a una legge non scritta, Antigone ha rappresentato nei secoli il modello insuperato di chi si oppone a un regime tirannico, di chi reagisce di fronte ai diritti calpestati e negati, di ogni donna in lotta contro il potere maschile. Ma questa figura che sembra racchiudere in sé ogni virtù non corrisponde al personaggio cui Sofocle ha dedicato l'omonima tragedia oltre 2500 anni fa. Ed è esplorando la distanza tra mito e personaggio che Eva Cantarella mette in luce lati sorprendentemente negativi dell'eroina da tutti osannata e arriva a contestare il ruolo di despota attribuito a Creonte, protagonista di una drammatica vicenda umana e politica che lo rende una figura non meno interessante e non meno tragica.
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