Il secondo capitolo di StraStorie Metropolis Edition 2023 è affidato a Gino Cervi.
Via Olmetto 1, un sabato di primavera, ore 11.10
Teresio Dei si è svegliato con la luna storta. Di più: stortissima. Nessuna novità. Teresio Dei ha dormito poco, poco e male. Sul poco non è neppure in grado di dire quanto. Quattro, forse cinque ore al massimo. Va a sapere quand’è crollato dentro il letto, il letto sfatto da oltre una settimana, nella camera dell’appartamento di via Olmetto 1, settanta metri quadri scarsi al terzo piano di un palazzo che, cento e più anni prima, aveva conosciuto il passaggio di signori con carrozze e cavalli dall’androne lastricato di pietra fin sotto il porticato e poi nel cortile a grossi ciottoli e con una tromba dell’acqua che chissà da quanto tempo nessuno adopera più.
Sul fatto che abbia dormito male, invece, non ci sono dubbi. Le prove? La testa è un’incudine in bilico sul collo. La schiena è un gomitolo di nevralgie. La bocca sa di lavandino intasato. Del resto, anche queste non sono novità per Teresio Dei, avvocato di poche cause perlopiù perse.
Dunque, Teresio Dei, sessant’anni, o giù di lì. Poco meno di un metro e ottanta. Ampiamente stempiato. Miope, dietro a un paio di occhiali dalla montatura sottile e sempre traballante sopra a un naso non banale. Si veste come se vivesse, già fuori moda, negli anni Ottanta. D’inverno, loden verde stazzonato, maglioni larghi con collo a V dal colore ormai indefinito, camicie azzurre col colletto sfilacciato, lisi pantaloni di velluto a coste, Clarks sformate. Con la bella stagione, jeans scoloriti dal tempo e non dal gusto, polo un tempo blu o bordeaux che tendono all’indaco e al rosa; quando piove, o minaccia, un trench chiaro. E l’ombrello col manico incastrato al gomito.
Vive in via Olmetto 1 da quando è ragazzo. Casa di famiglia, comprata coi risparmi di una vita da suo padre, per quarant’anni cassiere alla Banca Commerciale. L’appartamento è l’unica cosa di valore che Teresio Dei possiede, e che ha il sospetto di non meritarsi. Ci abita da solo da quando i suoi sono morti entrambi, a pochi mesi di distanza. Erano i primi anni Novanta e Teresio si era appena laureato in giurisprudenza alla fine di una dozzina di anni di studio pigro e di incerto profitto. Poi, con scarsa voglia e con ancor meno ambizione, il giovanotto, passati i trent’anni, aveva intrapreso la carriera forense. Come potesse pensare di farne la professione con cui mantenersi, in una città che aveva trasformato quel mestiere in un ring di arti marziali senza esclusioni di colpi, Teresio Dei se lo chiedeva ancora adesso, a distanza di anni. Ma, come una talpa in un rettilario, era miracolosamente sopravvissuto.
Si tratta, giustappunto, di sopravvivenza. La vita, di certo, è un’altra cosa. L’avvocato Dei si è scavato la propria tana in cause giudiziarie di primo grado, quelle che trattano materie di trascurabile valore economico o di minimo rischio sociale, ma che comunque richiedono, come recita il testo di legge, “capacità di assolvere degnamente, per indipendenza, equilibrio e prestigio acquisito e per esperienza giuridica e culturale, le funzioni di magistrato onorario”.
In trent’anni di seppur dimesso esercizio forense, l’avvocato Teresio Dei nel suo microcosmo di cause penali e controversie civili aveva mostrato di possedere indipendenza, equilibrio, e anche un certo relativo prestigio, ma in particolare una sterminata esperienza, oltre che giuridica e culturale, della più varia umanità: vecchi lingera in via d’estinzione, peripatetiche stagionatissime, piccoli spacciatori, ladri occasionali e, negli ultimi anni, una pletora di migranti. In tutto questo, l’avvocato Dei si manteneva, male, con lo stipendio di 800 euro al mese di giudice di pace. Riusciva qualche volta ad arrotondare grazie a misere parcelle di qualche causa trascurabile, e infatti trascurate da tutti i colleghi del Tribunale di Milano. Del resto quelli che si rivolgevano a lui, o che per essere difesi gli venivano assegnati d’ufficio, di solito stavano messi molto peggio. E allora andava bene se riuscivano a ricompensarlo in modi, diciamo, assai poco convenzionali. L’avvocato Dei si era così adattato a non disdegnare l’economia del baratto, con tutto quello che poteva conseguire, soprattutto se si trattava delle stagionatissime peripatetiche. La settimana prima, ad esempio, un cliente, Giacalone Carmine, trapanese trapiantato da una vita a Baggio, accusato di ricettazione, grazie non si sa come agli uffici giuridici dell’avvocato Dei, era riuscito a scamparla e l’avevano assolto. Il Giacalone si era sdebitato così. Dopo aver dato appuntamento al Dei all’una di notte in piazza Bertarelli, si era presentato dicendo: «Dottore avvocato, pigghiàte questa. Si chiama come a tte». E gli aveva mollato tra le mani una Umberto Dei, una di quelle biciclette eleganti, nere, coi freni a bacchetta, le manopole in corno, il carter lucidato. Teresio, dapprima perplesso, alla fine l’aveva accettata. Non saliva su una bicicletta da più di quarant’anni, ma aveva pensato che potesse essere una buona idea tornare a far girare le gambe.
In quella tarda mattinata di sabato, la Umberto Dei è lì che aspetta il suo quasi omonimo appoggiata nel breve corridoio dell’appartamento al terzo piano di via Olmetto 1. Teresio, ancora in mutande, stropicciandosi la faccia e la barba non rasata da tre giorni, la guarda dalla porta aperta della cucina. È al secondo caffè e alla terza sigaretta. «Ma sì» borbotta tra sé. «Vado a farmi un giro. Vediamo se ci so ancora andare.» Si lava così così, arraffa dei vestiti comodi dentro l’armadio – braghe larghe e una camicia a quadrettoni –, si veste e spinge la bicicletta fuori sul pianerottolo. Ci aveva provato, la notte in cui il Giacalone gliel’aveva portata, a farla entrare nell’ascensore col cancelletto in ferro battuto e il rivestimento di boiseries con specchio. Niente da fare. Se l’era dovuta portare, sbuffando e cristando, su al terzo piano a spalla, come un ciclocrossista fiammingo. Anche questa volta infila un braccio nel quadrante del telaio e inizia a scendere, con attenzione, le scale. Nell’androne incrocia due giapponesi. Da quando è stato colonizzato da una mezza dozzina di B&B, tranne che al piano nobile dove l’appartamento più grande è occupato dagli uffici anonimi e sempre deserti di una grande finanziaria, il palazzo di via Olmetto 1 sembra l’ONU. Quasi ogni giorno Teresio Dei riceve telefonate da agenzie immobiliari che gli chiedono se vuole vendere il suo l’appartamento. Sa che sarebbe la soluzione dei suoi guai. Probabilmente guadagnerebbe abbastanza per potersi permettere un affitto in periferia e con quello che gli avanzerebbe vivere una vita meno precaria, almeno per gli anni che gli restano. Ma l’idea di lasciare quella casa lo fa stare male. E così preferisce arrancare, sempre più in affanno, a fine mese, con le spese condominiali che oramai sono diventate costose quasi quanto un canone d’affitto.
Adesso però non ci pensa, anzi pensa solo se gli piacerà ancora arrancare sulla bicicletta. Davvero, sono quarant’anni che non mette il culo su una sella. È passata una vita da quando la bici da corsa, e il ciclismo, erano una quotidiana compagnia. Pomeriggi interi attaccato alla TV a guardare il Giro, il Tour, le grandi classiche dalla Sanremo al Lombardia. Adriano De Zan era quasi un parente. E Teresio sognava di diventare un campione come Felice Gimondi, o perlomeno come Franco Bitossi o Italo Zilioli. Aveva cullato per un po’ il sogno di correrci davvero, in bicicletta. Negli anni del liceo i genitori gli avevano regalato una Olmo, cambio Campagnolo Record, color ghiaccio. Con maglie di lana infeltrite dai lavaggi – l’Amatori B Gallaratese gialla e verde, la Vigor di Villapizzone bianca e rossa, il GS Casoratese rossa e blu… – , pantaloncini neri con l’imbottitura di pelle di daino e calzini corti rigorosamente bianchi che sbucavano dalle scarpette, nere anche quelle, di pelle sottile traforata e con la suola di cuoio rigida, partiva per lunghi giri di 80-90 km: il Naviglio Grande, Corsico, Trezzano, Gaggiano – la Venessia della Bassa, come la chiamava il suo papà, il Senio Dei –, e poi Abbiategrasso e le campagne del Parco Sud Milano; oppure la Martesana fino all’Adda; o ancora le colline della Brianza, Montevecchia come Cima Coppi. Una volta – chissà perché se lo ricorda proprio adesso, mentre uscito dal portone di via Olmetto, a piedi e con la bicicletta portata a mano, svolta a destra per via Amedei fino a incrociare corso Italia dove, al bar del suo amico Chen, entra a prendere il terzo caffè della giornata –, una volta, che era proprio una mattina di tarda primavera come oggi, con la Olmo color del ghiaccio aveva attraversato la città fino a Niguarda e da qui, lungo la Comasina, quando ancora ci si poteva pedalare senza rischiare la vita, sfiorando il Parco della Balossa, e poi Bollate, Traversagna, Senago, Cascina San Giuseppe, era arrivato fino a Limbiate, anzi a Mombello. E a Mombello si era fermato davanti al lunghissimo muro, forse due o tre chilometri, che circondava il manicomio. Sarà stato il 1977 o il 1978; no, sicuramente prima del 1978. Aveva sentito al telegiornale una notizia: stava per entrare in vigore una legge che avrebbe chiuso i manicomi. O meglio: li avrebbe aperti. E a Mombello c’era uno dei più grandi, e tristemente noti, ospedali psichiatrici della Lombardia, e forse d’Italia. Lo sapeva bene Teresio, perché la sua mamma era proprio di Mombello e di quel posto, di quel grande edificio circondato da un ancora più immenso giardino, lasciava ogni tanto trapelare storie di spaventose e di misteriose sofferenze. «De là del mur…» diceva, in milanese, la signora Clara, sussurrando con un misto di timore, pudore e terrore. Erano storie che avevano inquietato i sonni di Teresio bambino. Forse per questo, dopo aver ascoltato la notizia al telegiornale, aveva deciso quel giorno di adolescente primavera di inforcare la bicicletta, che era diventata il suo personale strumento di indipendenza e libertà, per andare da solo a vederlo quel muro, a Mombello.
Pensa, chissà perché, proprio a questo, l’avvocato Dei, quando Chen, ritirando la tazzina del caffè che ha appena bevuto e appoggiandola nel lavandino, gli dice: «Avvocato Telesio, dice giolnale oggi Milano tanti muli». Teresio Dei lo guarda, come si guarda uno struzzo dietro il bancone di un bar, e non sa cosa rispondere. Anche perché non ha capito un bel niente di quello che ha detto. Ma non ci fa caso. Fa caso invece a che nel frattempo non gli abbiano rubato la bicicletta appoggiata fuori senza essere chiusa da catena e lucchetto – che quelli, il Giacalone, mica glieli ha dati – , perché, sai com’è, a Milano è un attimo… Paga, saluta e se ne va. «Chissà se el voeur dì, el Chen stamatina» pensa distratto tra sé e sé, intanto che, finalmente, inforca la bicicletta. Sì, perché Teresio Dei, avvocato di poca fama ma di molta immaginazione, quando pensa, pensa rigorosamente in milanese.
Eccolo in sella, l’avvocato Dei. Sembra non esserne mai sceso. Anche lui pare stupito di tutta quella insperata confidenza col mezzo a due ruote, come se non avesse fatto altro che pedalare in tutti questi anni. La Umberto Dei fila via come una lama, giro ruota perfetto, meccanismi ben oliati, gomme gonfiate al punto giusto – e bravo Giacalone! – e all’avvocato Teresio bastano pochi colpi di pedale per sentirsi come rinato. La testa è leggera, la schiena ha sciolto i nodi dolenti, in bocca sente solo il buon sapore del caffè. Che bellezza! Svolta da corso Italia in via Rugabella, prende velocità, gli sembra di volare, chiude gli occhi e immagina di essere sul pavé della Roubaix, come quando trepidava per le vittorie a ripetizione di Francesco Moser. Non fa in tempo ad aprire gli occhi che, allo sbocco in piazza Erculea, gli si para davanti un muro di mattoni arancioni, come la maglia BIC di Jacques Anquetil. Frena di colpo prima di finirci contro. Per fortuna i freni a bacchetta della Umberto Dei funzionano perfettamente. E bravo Giacalone!
CONTINUA.
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