Dopo una pausa Milanese, Sandro Greblo torna a Wolisso, tra le piogge di luglio e tanto lavoro da fare.
Domenica 28 luglio ’19,
Wolisso, South West Shoa, Oromia, Etiopia
Come una talpa che esce dalla sua tana, finalmente, dopo due giorni di piogge ininterrotte, esco dal mio rifugio per fare due passi in città. Lungo la strada principale di Wolisso le solite dinamiche della tarda mattinata di una domenica da stagione delle piogge: bambini che mi salutano da lontano attratti dal chiarore della mia pelle, altri più coraggiosi che ne approfittano per chiedere una moneta oppure offrendosi di pulirmi le scarpe infangate, donne anziane che si recano alle loro funzioni di qualunque professione esse siano (l’altro ieri si è celebrata la sentita giornata di San Gabriele), adolescenti che sono già alla prima birra o sotto l’effetto del khat (o qat) che la domenica da queste parti è il passatempo principale.
Ogni tanto si incontra qualche uomo disteso sul marciapiede a cui nessuno presta attenzione e appena scesi dal marciapiede il costante via vai di persone che scendono e salgono dai bajaji, uno stuolo di mototaxi-triciclo blu che percorrono la strada principale avanti e indietro senza sosta. Molti indossano il vestito buono della domenica. I negozietti rimasti aperti sono pochi, soprattutto le panetterie, le macellerie, i caffè dove prendere un bunna o un macchiato, qualche farmacia vicino all’ospedale che non chiude mai, qualche bugigattolo con le solite cose: banane, biscotti, sapone, olio per cucinare, polvere per il bucato… . I commercianti si lamentano che i prezzi sono in costante aumento e il potere di acquisto della gente rimane lo stesso da anni.
Capirsi e accettarsi
Camminare mi fa pensare e mi rilassa, soprattutto quando esce un timido sole a scaldarmi. Penso alla gente che in questo momento affolla le spiagge italiane ignare sia di Wolisso che dei problemi dei suoi commercianti o ancora meno dei continui drammi degli africani che cercano miglior fortuna lontano da qui, in una terra straniera dove gli stranieri (i faranji) sono loro; immagino quanto deve essere dura per loro non capire una parola di svedese, tedesco, o italiano come io non capisco una parola di Afar-Oromo, il dialetto che si parla da queste parti.
Penso che accoglienza significhi per prima cosa disponibilità ad ascoltare e a comprendere. Mentre sogno un pezzo di focaccia, ripenso alle mamme e ai tantissimi bambini e ragazzini incontrati in questo mio ultimo mese di permanenza in Etiopia, alla loro energia e instancabilità, tra mille difficoltà. Le case fatte di una mistura di legno, paglia e fango (e due pezzi di lamiera per il tetto e la porta) in questa stagione diventano insopportabilmente fredde e umide e trovare un mezzo di trasporto che arrivi all’interno di alcuni villaggi isolati è un’utopia. Ci si sposta sui carretti trainati da cavalli (spesso poi abbandonati in mezzo alle strade quando non sono più utili) oppure a piedi, ma se si ha un’emergenza, è un problema. Ci si deve affidare alla propria comunità, a barelle di fortuna, a qualche soldo messo da parte se il raccolto precedente lo ha consentito.
Realtà e opinione pubblica
Leggendo la stampa internazionale, si sente parlare dell’Etiopia come uno dei paesi più promettenti della regione, dove gli indicatori economici e di salute sono in costante miglioramento e le recenti promesse del nuovo primo ministro Abeyi incoraggianti (sebbene le elezioni previste per l’anno prossimo saranno probabilmente rinviate ancora). Si dovrebbe però andare a fondo e analizzare le disparità regionali, studiando i dati per capire quelli che davvero sono correlati ad un miglioramento della qualità della vita delle persone, che per la maggior parte in Etiopia sono agricoltori. La miopia che attanaglia l’opinione pubblica occidentale nel non interessarsi spesso a queste dinamiche è un segno di quanto siamo sempre più attaccati al nostro orticello, le cui protezioni non potranno tenere ancora a lungo in questo mondo sempre più globalizzato e interconnesso.
Alessandro Greblo (Capo Progetto Salute Pubblica, Wolisso)