Quando l’amore è un fatto sociale, infrangere le regole ha le sue conseguenze. Dalla penna “politica” di Arundhati Roy, “Il dio delle piccole cose”.
Quando ho cominciato a pensare d’amore, uno dei primi libri che mi sono venuti in mente è stato Il Dio delle piccole cose di Arundhati Roy. Romanzo, delicato e gentile, diretto e lineare come spesso lo sono i ricordi. Quelli della scrittrice e quelli di Estha e Rahel, i piccoli figli della protagonista.
Un vecchietto perché, pubblicato nel 1997, possiamo definirlo un classico della letteratura internazionale, al pari di Tocaia grande e Cent’anni di solitudine. Un caso letterario, vincitore del Booker Prize e tradotto in ventinove e passa lingue. Un bel romanzo, perché scritto da una delle penne più brillanti della letteratura indiana (con Jhumpa Lahiri), prestata al romanzo da una produzione di saggistica sociale e politica di rara profondità.
Ammu ha vissuto accanto ad un uomo che non amava, che abusava di alcol e violenza, dal quale ha avuto due figli e che aveva dovuto sposare perché lei, figlia di una casta “alta”, non avrebbe potuto aspirare a marito migliore. Se visto con le lente del decoro sociale. Ma se qualcuno avesse guardato la piccola e forte Ammu con la lente dell’amore, avrebbe visto ben altra storia, fatta di soprusi, di violenza psicologiche, di una società che marcia su assurde regole millenarie. All’apparenza infrangibili. All’apparenza però, perché un giorno Ammu lascia quel marito mai amato e, con i suoi due figli, torna alla casa paterna, da donna divorziata che, in Kerala, vuol dire priva di qualsiasi diritto e posizione sociale. E non finisce qui perchè, come aggravante, l’amore le gioca il brutto scherzo di farla innamorare ancora e di un paria. Ma la vita va cos, fatta di tante piccole gioie quotidiane.
Se oggi ho deciso di parlarvi di questo romanzo, è perché per me è uno dei pochi romanzi in grado di parlare di “Vero amore”. E per parlarvene, ho dovuto recuperare uno dei miei taccuini di viaggio indiani, che scrissi proprio durante il primo viaggio tra Kolkata e l’Orisha, mentre un occhio correva tra le righe della Roy e l’altro fissava il panorama che sfilava dietro i finestrini del lento (e sporco) treno diretto verso Bhubaneswar.
Che tutto cominciò davvero nei giorni in cui furono fissate le leggi dell’Amore. Le leggi che stabiliscono chi si deve amare, e come. E quanto.
Allora annotavo qualcosa che nessuno mai mi aveva detto: “l’India non è così come te la raccontano”. Sì, perché l’India puzza, è sporca, è crudele, non ha pietà, gli uomini e le donne non hanno volti, c’è chi è ricco davvero e chi è molto più povero di quello che noi occidentali abbiamo mai immaginato. Schiere di baboni spirituali (come li chiamava una mia lontana amica) ti parlano di misticismo, di ascetismo, di reincarnazione e di karma, fanno massaggi e ti chiedono se vuoi anche qualcosa d’altro. Ma l’India è anche memoria imperitura; vita all’ennesima potenza; amore e morte che camminano a braccetto ogni giorno, in ogni angolo di strada; è le divinità che camminano accanto agli uomini e sbagliano come loro; è la forza archetipica delle antiche civiltà sopravvissute alla colonizzazione ed ai cambiamenti; è il profondo rispetto e la pace più assoluta; è catarsi tragica che risveglia gli animi.
Perché dico tutto questo? Perché se pensiamo di leggere questo romanzo con gli occhi di un occidentale che ha vissuto in una delle nostre pulite città di provincia, o in una della nostre ordinate metropoli, non lo capiremmo mai. Troveremo davvero difficile recuperare il bandolo di questa narrazione. Ebbene, vi svelo un segreto: il vero senso di questa storia non cercatelo negli accadimenti, nei fatti che vengono narrati, ma nei dettagli, nelle piccole gioie, negli aneddoti, nelle piccole cose. E non è neppure difficile, visto che è la stesa autrice a suggerirci la chiave di lettura di questa grande storia familiare, dove le generazioni si confrontano, le regole di una società obsoleta vengono infrante e l’amore fa il suo corso, senza guardare in faccia a nessuno.
Le Grandi Storie sono quelle che abbiamo già sentito e che volgiamo sentire di nuovo. Quelle in cui possiamo entrare da una parte qualunque e starci comodi. Non ci ingannano con trasalimenti e finali a sorpresa […] Nelle Grandi Storie sappiamo chi sopravvive, chi muore, chi trova l’amore e chi no. E ciononostante vogliamo sentirle un’altra volta.
Quella della Roy è una grande storia, come quelle di Marquez o di Jorge Amado. Ci racconta un universo, ed un mondo, molto lontano dal nostro e dall’immagine da “guida turistica” che ci viene restituita di esse. Ha la forza di riportarci alla realtà della vita vissuta tutti i giorni, raccontando storie semplici, ma non per questo semplicistiche. Ci fa soffrire e, al tempo stesso, ci lascia distaccati, incapaci di dare un giudizio di merito alle vicende che si rincorrono, pagina dopo pagina.
Non sappiamo giudicare perché la Roy non è una scrittrice di parte, non sostiene i suoi personaggi, non parteggia per i loro sentimenti. Perché la Roy è una vera scrittrice, in grado di dare voce ai personaggi semplicemente raccontando la loro storia, l’intrico di vita che li accompagna, nel bene e nel male. Lei non può essere di parte perché così facendo racconterebbe solo in modo parziale la vita di Ammu, dei suoi figli e del suo amore sconsiderato. E, invece, Il Dio delle piccole cose fa esattamente quello che il suo titolo promette ed anticipa: racconta quella microstoria, fatta di aneddoti più che eventi, che è il frutto della concatenazione di causa ed effetto, dell’ondeggiare delle acque al lancio di un sasso, mentre i suoi personaggi sono lì, spettatori attivi in quello scenario, ad attendere che quella piccola mareggiata passi sopra le loro teste, uccidendoli o fortificandoli.
La stanza aveva custodito i suoi segreti. Non rivelava niente. Né con lenzuola stropicciate, né con una scarpa spaiata in un angolo, né con un asciugamano umido abbandonato sulla spalliera di una sedia.
Come finisce questa storia? Non saprei dirvelo, perchè ha molti finali, uno per ogni vita che racconta. Non tutti belli, non tutti brutti, non tutti inaspettati. La narrazione della Roy conduce i suoi personaggi inevitabilmente all’epilogo che loro stessi hanno costruito per sé, con le proprie azioni, decisioni e rifiuti. E l’autrice, così facendo, ci fa riflettere proprio sulla prevedibilità della vita, su come le persone, alla fine, trovino veramente quello che stanno cercano o di cui hanno più paura. E di come l’unica salvezza possibile sia quella di lasciare andare che le cose arrivino e le mareggiate passino, prendendo il bene che possono portare e lasciando andare il male che hanno inflitto. Raccogliere solo nelle nostre tasche la gioia che le piccole cose sanno portarci e poi lasciarle andare come se mia davvero ci fossero appartenute.
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